Una donna di Sibilla Aleramo, coraggio di Massimo Gramellini, galeone, Danubio di Claudio Magris, Arricietto di Erri De Luca
Buongiorno e buona domenica.
Ecco la selezione di oggi:
Parola del giorno: sinistra
A schiovere: Arricietto di Erri De Luca
«Ogne suspiro coce, ma tene ‘o ffuoco doce e quanno trase mpietto nun te da cchiù arricietto». Ogni sospiro scotta ma ha un fuoco dolce e quando entra nel petto non ti da più riparo. Questi versi sono della canzone «Uocchie c’arraggiunate», occhi che ragionate, anno 1904. Occhi e sguardi esprimono da soli dei pensieri e non permettono riparo a chi ne è innamorato.
Arricietto: in tempo di guerra è una parola d’ordine. La generazione prima della mia ha contato a Napoli più di cento bombardamenti aerei. Si scappava al suono lugubre della sirena di allarme per trovare un arricietto nei rifugi antiaerei.
«Iate, iate», mia nonna diceva ai figli che si avviavano di corsa per le scale, «io vengo appresso», vengo dopo. Certe volte non scendeva nemmeno. Esiste un’indifferenza napoletana che non conta sulla fede ma sul fatalismo. È indifferenza pura verso il pericolo.
Sono stato sotto i bombardamenti della Nato a Belgrado nella primavera del ‘99 e neanch’io scendevo ai ricoveri. Qualcosa di mia nonna era passato a me.
Pensavo a lei durante il chiasso della sirena che precedeva le esplosioni. Pensavo al suo: «Iate, iate».
Nei momenti di tensione e affanno mi esce, puntuale e pronto, il napoletano. Mi protegge.
È il mio arricietto.
Corriere della sera Napoli
Parole per ricordare di Zanichelli: galateo
Pensiero del giorno: Il coraggio non consiste nel non avere paura, ma nel fare la cosa di cui abbiamo più paura, perché la paura è una spia che indica la nostra esigenza più urgente. Abbiamo paura di ciò di cui abbiamo bisogno.
Massimo Gramellini, Sette, Corriere della sera
Danubio di Claudio Magris
1 • Una targa
«Carissimo!
L’assessore di Venezia, sig. Maurizio Cecconi, sulla base del progetto allegato ci ha avanzato la proposta di organizzare una mostra sul tema “L’architettura del viaggio: storia ed utopia degli alberghi”. La sede prevista è Venezia. Del finanziamento si interesserebbero diverse istituzioni ed organizzazioni. Se Lei vorrà dimostrare interesse per una collaborazione…»
Il caloroso invito, recapitato qualche giorno fa, non si rivolge a un destinatario preciso, non nomina la persona o le persone che apostrofa con trasporto; lo slancio affettuoso patrocinato dall’Ente Pubblico trascende le individualità particolari e abbraccia il generale, l’umanità o almeno una larga e fluida comunità di colti e intelligenti. L’allegato progetto – steso da professori delle università di Tübingen e di Padova, articolato secondo una logica rigorosa e corredato di bibliografia – vuole portare all’inesorabile ordine del trattato l’imprevedibilità del viaggio, l’intrico e la dispersione dei sentieri, la casualità delle soste, l’incertezza della sera, l’asimmetria di ogni percorso. Lo schema è la bozza di uno statuto della vita, se è vero che l’esistenza è un viaggio, come si suol dire, e che passiamo sulla terra come ospiti.
Certo, nel mondo amministrato e organizzato su scala planetaria l’avventura e il mistero del viaggio sembrano finiti; già i viaggiatori di Baudelaire, partiti alla ricerca dell’inaudito e pronti a naufragare in questa sortita, trovano nell’ignoto, nonostante ogni disastro imprevisto, lo stesso tedio lasciato a casa. Muoversi, comunque, è meglio che niente: si guarda dal finestrino del treno che precipita nel paesaggio, si offre il viso a un po’ di fresco che scende dagli alberi sul viale, mescolandosi alla gente, e qualcosa scorre e passa attraverso il corpo, l’aria s’infila nei vestiti, l’io si dilata e si contrae come una medusa, un po’ d’inchiostro trabocca dalla boccetta e si diluisce in un mare color inchiostro. Ma questo blando allentamento dei nessi, che sostituisce l’uniforme con un pigiama, è l’ora di ricreazione nel programma scolastico, più che la promessa del grande dissolvimento, del folle volo in cui si varca il confine. Velleità, diceva Benn, anche quando si sente lo spietato azzurro spalancarsi sotto l’opinabile realtà. Troppi aruspici compiaciuti e perentori ci hanno insegnato che la clausola «tutto compreso» dei tariffari turistici include pure il vento che si leva. Ma rimane, per fortuna, l’avventura della classificazione e del diagramma, la seduzione metodologica; il professore di Tübingen ingaggiato dall’assessore, consapevole che la prosa del mondo minaccia l’odissea, l’esperienza concreta e irripetibile dell’individuo, si rincuora citando a pagina 3 Hegel, grande allievo del seminario teologico della sua città, e ripetendo con lui che il metodo è la costruzione dell’esperienza.
Questa panchina di legno, che guarda la sottile striscia d’acqua, invita alla simpatia per il sistematico progetto, trovato nella cassetta della posta poco prima di partire – simpatia per la piccola arte della fuga che si nasconde sotto le arcate dei suoi passaggi logici. Il legno ha un buon odore, un’asciuttezza virile da Cavaliere della valle solitaria, la Breg – o il Danubio? – è un nastro di bronzo che scorre bruno e lucente, e grazie a qualche macchia di neve nel bosco la vita sembra una giornata fresca ed ariosa, una promessa di cielo e di vento. Una felice congiura delle circostanze e una benevola rilassatezza, forse favorita anche dalla cordialità di quel «carissimo», invitano ad aver fiducia nel mondo, e ad accettare pure la sintesi, formulata a chiare lettere dal collega tedesco nel programma veneziano, fra la Scienza della Logica hegeliana e le categorie degli alberghi.
È confortevole che il viaggio abbia un’architettura e che sia possibile portarvi qualche pietra, sebbene il viaggiatore sembri non tanto uno che costruisce paesaggi – ufficio del sedentario – quanto uno che li smonta e li disfa, come il barone von R. di cui narra Hoffmann, che girava per il mondo facendo collezioni di panorami e, quando lo riteneva necessario per godere o per creare un bel colpo d’occhio, faceva segare alberi, sfrondare rami, spianare le gibbosità del terreno, abbattere interi boschi o demolire fattorie, se ostacolavano una visuale. Ma anche la distruzione è un’architettura, una decostruzione che segue regole e calcoli, un’arte di scomporre e ricomporre ossia di creare un altro ordine: quando una parete di fogliame cadeva d’improvviso, spalancando una veduta sui ruderi d’un castello lontano nella luce del tramonto, il barone von R. si fermava alcuni minuti a contemplare lo spettacolo che egli stesso aveva messo in scena e poi ripartiva in fretta, per non tornare mai più.
Ogni esperienza è il risultato di un tenace metodo, anche la trasparenza del tramonto lontano per il barone von R. o l’aria di neve che arriva a questa panchina della Selva Nera. È nelle classificazioni che la vita rivela il suo struggente balenìo, nei protocolli che cercano di catalogarla e ne pongono in tal modo in evidenza l’irriducibile residuo di mistero e di incanto. Così lo schema del progetto dei due espansivi studiosi, articolato come il Tractatus di Wittgenstein (1.1, 1.2, 2.11, 2.12 ecc.), lascia intravvedere, nelle minime fessure fra un numero e l’altro, le indefinite peripezie del viaggiare: distingue alberghi lussuosi (luxuriös), borghesi, semplici, popolari, locali, portuali, di gita, contadini, principeschi, conventuali, di carità, patrizi, di corporazioni artigiane, di dogana, di posta, di carrettieri. Soltanto le tabelle della scienza sanno mettere adeguatamente in risalto l’umorismo metafisico degli oggetti e degli eventi quotidiani, delle loro connessioni e sequenze: nella sezione E, dedicata alle Scene – s’intende quelle che possono svolgersi negli alberghi – si legge, ad un certo punto: «2.13. Erotica: – corteggiare – prostituzione. 2.14. Abluzione. 2.15: Stanze da letto. 2.16. La sveglia».
Non so in quale categoria d’albergo rientrerebbe quello di Neu-Eck, nella Selva Nera, a pochi chilometri da questa panchina, nel quale ventitré anni fa, davanti a un sottobicchiere della birra Fürstenberg, un cerchio di cartone con una specie di drago rosso in campo oro orlato di blu e compreso a sua volta in uno sfondo rosso e bianco che roteava fra le nostre mani, si è decisa la mia vita. Partenza e ritorno, le voyage pour connaître ma géographie, come diceva quel pazzo di Parigi. La targa, a pochi metri da questa panchina, indica la – una? – sorgente del Danubio e anzi sottolinea che si tratta di quella principale. Fiume della melodia, lo chiamava Hölderlin presso le sue sorgenti; linguaggio profondo e nascosto degli dèi, strada che univa l’Europa e l’Asia, la Germania e la Grecia, lungo la quale la poesia e il verbo, nel tempo del mito, erano risaliti a portare il senso dell’essere all’occidente tedesco. Sulle rive del fiume, per Hölderlin, c’erano ancora gli dèi: celati, incompresi dagli uomini nella notte dell’esilio e della scissione moderna, ma vivi e presenti; nel sonno della Germania dormiva, intorpidita dalla prosa della realtà ma destinata a risvegliarsi in un utopico futuro, la poesia del cuore, la liberazione, la riconciliazione.
Il fiume ha molti nomi. Presso vari popoli, Danubio e Istro indicavano rispettivamente il corso superiore e quello inferiore ma talora anche quello intero: Plinio, Strabone e Tolomeo si chiedevano dove finisse l’uno e iniziasse l’altro, forse in Illiria o alle Porte di Ferro. Il fiume «bisnominis», come lo chiamava Ovidio, trascina la civiltà tedesca, col suo sogno dell’odissea dello spirito che torna a casa, verso oriente e la mescola ad altre civiltà, in tante meticce metamorfosi nelle quali la sua storia trova il suo compimento e la sua caduta. Il germanista, che viaggia a intermittenze, quando e come può, lungo tutto il corso del fiume che tiene insieme il suo mondo, si porta dietro il suo bagaglio di citazioni e di fisime; se il poeta si affida al battello ebbro, il suo supplente cerca di seguire il consiglio di Jean Paul, che suggeriva di raccogliere per strada e annotare immagini, vecchie prefazioni, locandine di teatro, chiacchiere in stazione, poemi e battaglie, scritte funebri, metafisiche, ritagli di giornale, avvisi nelle osterie e nelle parrocchie. Souvenirs, impressions, pensées et paysages pendant un voyage en Orient, dice il titolo di Lamartine. Impressioni e pensieri di chi? Quando si viaggia soli, come succede troppo spesso, bisogna pagare di tasca propria, ma qualche volta la vita è buona e permette di andare in giro e di vedere il mondo, anche soltanto a tratti e per poco, con quei quattro o cinque amici che testimonieranno per noi il giorno del Giudizio, parlando a nostro nome.
Fra un viaggio e l’altro, tornati a casa, si cerca di stendere le gonfie cartelle di appunti sulla piana superficie della carta, di trasferire plichi, bloc-notes, dépliants e cataloghi su fogli battuti a macchina. Letteratura come trasloco; qualcosa, come in ogni trasloco, va perso e qualcosa salta fuori da ripostigli dimenticati. Davvero quasi andiamo come orfani, dice Hölderlin nella poesia Alle sorgenti del Danubio – il fiume scorre e scintilla nel sole come il fluire della vita, ma il senso che riluce è un’illusione ottica dello sguardo abbagliato che vede inesistenti macchie luminose sul muro, splendore al neon del dileguare, seduzione dell’apparenza, copertine illustrate.
Il riverbero del nulla accende le cose, i barattoli di latta abbandonati sulla spiaggia e i catarifrangenti delle automobili, come il tramonto incendia le finestre. Il fiume non ha alcuna totalità e viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando. Ma il fiume è un vecchio maestro taoista, che lungo le sue rive tiene lezione sulla grande ruota e sugli interstizi fra i suoi raggi. In ogni viaggio c’è almeno un frammento di Sud, ore distese, abbandono, fluire dell’onda. Incurante degli orfani sulle sue sponde, il Danubio scorre verso il mare, verso la grande persuasione.
Una donna di Sibilla Aleramo
La mia fanciullezza fu libera e gagliarda. Risuscitarla nel ricordo, farla riscintillare dinanzi alla mia coscienza, è un vano sforzo. Rivedo la bambina ch’io ero a sei, a dieci anni, ma come se l’avessi sognata. Un sogno bello, che il menomo richiamo della realtà presente può far dileguare. Una musica, fors’anche: un’armonia delicata e vibrante, e una luce che l’avvolge, e la gioia ancora grande nel ricordo.
Per tanto tempo, nell’epoca buia della mia vita, ho guardato a quella mia alba come a qualcosa di perfetto, come alla vera felicità. Ora, cogli occhi meno ansiosi, distinguo anche ne’ primissimi anni qualche ombra vaga e sento che già da bimba non dovetti mai credermi interamente felice. Non mai disgraziata, neppure; libera e forte, sì, questo dovevo sentirlo. Ero la figliola maggiore, esercitavo senza timori la mia prepotenza sulle due sorelline e sul fratello: mio padre dimostrava di preferirmi, e capivo il suo proposito di crescermi sempre migliore. Io avevo salute, grazia, intelligenza — mi si diceva — e giocattoli, dolci, libri, e un pezzetto di giardino mio. La mamma non si opponeva mai a’ miei desideri. Perfino le amiche mi erano soggette spontaneamente.
L’amore per mio padre mi dominava unico. Alla mamma volevo bene, ma per il babbo avevo un’adorazione illimitata; e di questa differenza mi rendevo conto, senza osar di cercarne le cause. Era lui il luminoso esemplare per la mia piccola individualità, lui che mi rappresentava la bellezza della vita: un istinto mi faceva ritenere provvidenziale il suo fascino. Nessuno gli somigliava: egli sapeva tutto e aveva sempre ragione. Accanto a lui, la mia mano nella sua per ore e ore, noi due soli camminando per la città o fuori le mura, mi sentivo lieve, come al di sopra di tutto. Egli mi parlava dei nonni, morti poco dopo la mia nascita, della sua infanzia, delle sue imprese fanciullesche meravigliose, e dei soldati francesi ch’egli, a otto anni, aveva visto arrivare nella sua Torino, “quando l’Italia non c’era ancora.” Un tale passato aveva del fantastico. Ed egli m’era accanto, con l’alta figura snella, dai movimenti rapidi, la testa fiera ed eretta, il sorriso trionfante di giovinezza. In quei momenti il domani mi appariva pieno di promesse avventurose.
Il babbo dirigeva i miei studi e le mie letture, senza esigere da me molti sforzi. Le maestre, quando venivano a trovarci a casa, lo ascoltavano con meraviglia e talvolta, mi pareva, con profonda deferenza. A scuola ero tra le prime, e spesso avevo il dubbio d’avere un privilegio. Sin dalle classi inferiori, notando la differenza dei vestiti e delle refezioni, m’ero potuto formare un concetto di quel che dovevano essere molte famiglie delle mie compagne: famiglie d’operai gravate dalla fatica, o di bottegai grossolani. Rientrando in casa guardavo sull’uscio la targhetta lucente ove il nome di mio padre era preceduto da un titolo. Non avevo che cinque anni allorché il babbo, che insegnava scienze nella cittaduzza ov’ero nata, s’era dimesso in un giorno d’irritazione e s’era unito con un cognato di Milano, proprietario d’una grossa casa commerciale. Io capivo che egli non doveva sentirsi troppo contento della sua nuova situazione. Quando lo vedevo, in qualche pomeriggio libero, entrare nello stanzino ov’erano raccolti un poco in disordine alcuni apparecchi per esperienze di fisica e di chimica, comprendevo che là soltanto si trovava a suo agio. E quante cose mi avrebbe insegnato il babbo!
Senz’essere impaziente, la mia curiosità dava un sapore acuto all’esistenza. Non m’annoiavo mai. Spesso rifiutavo d’accompagnar la mamma a qualche visita e restavo a casa, sprofondata in un gran seggiolone, a leggere i libri più disparati, sovente incomprensibili per me, ma dei quali alcuni mi procuravano una specie d’ebbrezza dell’immaginazione e mi astraevano completamente da me stessa. Se m’interrompevo, era per formular pensieri confusi; e lo facevo talora a voce sommessa, come scandendo dei versi che una voce interiore mi suggerisse. Arrossivo; come arrossivo di certe pose languide che assumevo nella stessa poltrona, quando mi accadeva per un attimo di trasportarmi colla fantasia nei panni d’una bella dama piena di seduzioni. Potevo distinguere tra affettazione e spontaneità? Mio padre giudicava con una indifferenza un poco sprezzante ogni manifestazione di pura poesia: diceva di non capirla: la mamma, sì, ripeteva ogni tanto qualche strofa carezzevole e nostalgica, o modulava colla voce appassionata spunti di vecchie romanze; ma sempre quando il babbo non c’era. E sempre io ero disposta a credere che mio padre avesse ragione più di lei.
Ciò anche quando egli prorompeva in una di quelle crisi di collera che ci facevan tremar tutti e mi piombavano in uno stato d’angoscia, rapido, ma indicibile. La mamma reprimeva le lagrime, si rifugiava in camera. Sovente, dinanzi al babbo, ella aveva un’espressione umiliata, leggermente sbigottita: e non solo per me, ma anche pei bambini, tutta l’idea d’autorità si concentrava nella persona paterna.
Diverbi gravi tuttavia non avvenivano fra loro due in nostra presenza: qualche parola acre, qualche rimprovero secco, qualche recisa ingiunzione; al più il babbo si abbandonava al proprio temperamento di fuoco per qualche disavvedutezza delle persone di servizio, per qualche capriccio nostro: ma di tutto appariva responsabile la mamma, che reclinava il capo come se fosse colpita all’improvviso da una grande stanchezza, o sorrideva, d’un certo sorriso che non potevo sostenere, perché deformava la bella bocca rassegnata.
Si rivolgeva ella in quel punto a visioni del passato?
Non rievocava quasi mai davanti a me la sua fanciullezza, la sua gioventù; dal poco che avevo sentito, però, avevo potuto formarmene una visione assai meno interessante di quella suscitata dai ricordi di mio padre. Ella era nata in un ambiente modestissimo d’impiegati, e, come la mia nonna paterna, sua madre aveva avuto molti figliuoli, di cui la maggior parte viveva sparsa pel mondo. Doveva esser cresciuta fra le strettezze, poco amata. Cenerentola della casa. A ventanni, ad una festicciuola da ballo, s’era incontrata col babbo. Ella mi mostrava il ritratto del giovinetto imberbe che mio padre era stato allora: fattezze ancor da fanciullo, dolci, regolari, fra cui gli occhi soli esprimevano già un’energia ferrea: egli faceva il penultimo anno di Università. Appena prese la laurea, aveva ottenuto una cattedra e s’erano sposati.
Quand’io ero nata, l’anno non era ancor compiuto dal dì delle nozze. La mamma s’illuminava nel volto bianco e puro le rarissime volte che accennava alle due stanzine coi mobili a nolo dei primi mesi di vita coniugale. Perché non era sempre così animata? Perché era così facile al pianto, mentre mio padre non poteva sopportare la vista delle lacrime, e perché mostrava opinioni diverse tanto spesso da quelle di lui, quando osava esprimerle? Perché, anche, era così poco temuta da noi bambini, e così poco ubbidita? Come il babbo, anch’ella cedeva talvolta a momenti di collera; ma sembrava, allora, che rompesse in un singhiozzo troppo a lungo frenato… Io avevo la sensazione che lo sfogo, anche eccessivo, di mio padre, fosse naturale sempre, inerente al suo temperamento; nella mamma invece gli scoppi di malumore contro i figliuoli o le cameriere contrastavano dolorosamente colla sua natura dolce; si palesavano come un eccesso spasmodico di cui ella stessa aveva coscienza, nell’atto, e rimorso.
Quante volte ho visto brillare per una lagrima trattenuta i begli occhi profondi e bruni di mia madre! Saliva in me un disagio invincibile, che non era pietà, non era dolore neppure, e neppure reale umiliazione, ma piuttosto un oscuro rancore contro l’impossibilità di reagire, di far che non avvenisse ciò che avveniva. Che cosa? Non sapevo bene. Verso gli otto anni avevo come lo strano timore di non possedere una mamma “vera,” una di quelle mamme, dicevano i miei libri di lettura, che versano sulle figliuolette, col loro amore, una gioia ineffabile, la certezza della protezione costante. Due, tre anni dopo, a questo timore succedeva in me la coscienza di non riuscire ad amar mia madre come il mio cuore avrebbe desiderato. Era questo, certo, che m’impediva d’indovinare la vera cagione per cui nella nostra casa si proiettava, perenne, un’ombra indefinibile ad impedire così spesso la libera fioritura del sorriso. Oh, poter gettarmi una volta al suo collo con abbandono assoluto, sentirmi capita da lei, anche prometterle il mio appoggio per quando sarei grande; stringere un patto di tenerezza, come avevo fatto tacitamente col babbo da tempo immemorabile!
Ella mi ammirava in silenzio, riportando su me un poco dell’orgoglio già provato per la balda energia dello sposo; ma non approvava il metodo d’educazione a cui mi assoggettavo con tanto fervore; temeva per me, immaginando certo che io crescessi senza sentimento, ch’io fossi destinata a vivere col solo cervello; e non aveva il coraggio di contrastare l’opera del babbo.
Ma neppure il babbo cercava di conoscermi per intero. Certe volte mi sentivo proprio sola. M’avvolgeva allora uno di quegli stupori meditativi che costituivano il secreto valore della mia esistenza.
Spuntava il pudore dell'anima. Accanto, parallela alla vita esteriore, una vita occulta a tutti si approfondiva. Ed io avvertivo questo dualismo. Fin dal primo anno di scuola mi aveva preoccupata il fatto di due diversi aspetti del mio essere: a scuola tutti mi trovavano angelica, ed io buona ed esemplare infatti, col visino tranquillo ove errava sempre un sorriso timido e vivido insieme; appena fuori, nella strada, sembrava ch’io aprissi tutta l’aria intorno, mi mettevo a saltare, a parlare a vanvera, e in casa entrava con me il terremoto: i fratellini cessavano dai loro giuochi placidi, pronti a’ miei cenni d’autocrate ostinata.
Sopraggiunta l’ora di preparar compiti e lezioni, mi ritiravo nella mia stanzetta o in un angolo del giardino, e di nuovo non esistevo più per gli altri, di nuovo afferrata dal gusto dell’applicazione intellettuale, pur senza alcuna brama di emular compagne o di meritarmi premi. Poi, la sera, dopo che la mamma m’aveva fatto recitare nel nostro caro dialetto due parole di preghiera: “Signore, fatemi diventare grande e brava, a consolazione dei miei genitori” e m’aveva lasciata al buio nel letto ove mia sorella già dormiva, io provavo una sensazione di riposo, di benessere, non soltanto fisico, come se in quel momento, costretta all’oscurità, al silenzio e alla immobilità, fossi più libera che durante tutta la giornata.
Mi piaceva guardar nelle tenebre; non ne avevo paura, perché il babbo m’aveva assicurata sin da quando ero piccina che gli orchi e le streghe delle favole non sono mai esistiti, come non era mai esistito il “diavolo.” Riandavo con la mente i piccoli casi del giorno: rivedevo il sorriso seduttore del babbo, un gesto di sconforto delle mani materne, riprovavo qualche stizza per certe goffaggini de’ miei minori, mi soffermavo alquanto sulle prospettive del domani: esito d’esami, viaggetti, libri e giuochi nuovi, amiche e maestre da conquistare…
La mamma mi faceva pregare ogni sera. Pregare Dio…
Un giorno, facevo la seconda elementare, avevo udito rivolgere il titolo di “ebrea,” sprezzantemente, ad una piccola compagna silenziosa e pallida che stava seduta nel banco accanto al mio. Ella era scoppiata in pianto, e la maestra saputo il perché, aveva pronunziato frasi severe. La cosa mi aveva riempito di stupore, poiché non sapevo nulla ancora di razze, e di religioni diverse. Ma più mi aveva colpito una parola della maestra: ella aveva detto che tutte le religioni portano l’uomo dinanzi a Dio, e che tutte perciò son degne di rispetto; che un solo essere suscita ribrezzo e insieme pietà, ed è l’ateo. Mio padre mi si era allora rizzato davanti alla mente: mio padre era ateo, io ne ero ben sicura; quella parola egli stesso l’aveva pronunciata talora; egli non andava mai in chiesa… Dunque mio padre, per la maestra, per le compagne, per tutta la gente, era una creatura disprezzabile?
Tre, quattro anni dopo, nel silenzio della mia stanzetta, io mi rivolgevo ancora questa stessa domanda. Ora il babbo mi parlava più spesso di quella ch’egli riteneva una menzogna secolare, mi diceva che prima degli uomini vi erano sulla terra degli animali quasi simili a noi, che prima di essi e delle piante la terra era deserta, e che questa terra è nello spazio un piccolo punto come sembrano a noi le stelle nel cielo, e le stelle altrettanti mondi, forse viventi… Egli diceva
queste cose straordinarie con tanta naturalezza, che io non potevo metterle in dubbio.
Tuttavia, egli non mi spiegava — né io ardivo mai domandarglielo — perché noi siamo in questo mondo. Da questo lato il catechismo della scuola era forse più soddisfacente: Dio ci ha creati, Dio ci guarda dall’alto, Dio, se saremo buoni, ci farà andare in Paradiso… La vita non sarebbe che un passaggio.
Ma quanta importanza davano tutti a questo passaggio! Mi pareva che nessuno pensasse sul serio all’inferno, e che tutti invece avessero paura di farsi del male, d’ammalare, di morire. Per me, ero disposta a credere col babbo che l’inferno non esistesse: nessun angelo e nessun tentatore sentivo mai alle mie spalle: quand’ero savia, era perché lo volevo; quando avevo dei rimorsi, ero persuasa d’essere stata proprio io la colpevole. E allora…? Dal mattino alla sera la mamma, il babbo, le maestre, gli operai per la strada, tutti, insomma, anche i gran signori… chi guadagna soldi, chi li spende: si spende per mangiare; si mangia per non morire; e passano le settimane, i mesi, gli anni, e si muore, e io e i fratellini avremmo fatto lo stesso…
La cosa m’infastidiva. Il sonno stava per sopraggiungere, lo sentivo: l’indomani avrei ripreso l’inutile meditazione. Sapere, sapere! Nel dormiveglia mi si affollavano al cervello parole piene di mistero: “eternità,” “progresso,” “universo,” “coscienza…” Danzavano all’orecchio e ne smarrivo perfino il suono. E ancora, rivedevo l’espressione compunta di qualche maestra, mi chiedevo se la mamma andava alla messa, la domenica, proprio per suo piacere o per qualche strano timor della gente, ricordavo la prima ed unica volta che avevo assistito ad una predica, nel mese di maggio, una sera in cui l’altare, in una grande chiesa, brillava fra i ceri ed i gigli. Dal pulpito il frate agitava un braccio con gesto ampio e la voce imperiosa discendeva sulla folla inginocchiata: raccontava dei miracoli d’un santo, e pareva che tutti gli credessero: alla fine, l’organo aveva incominciato a suonare, e dall’alto, invisibile, un coro, una pura onda d’argento, aveva intonato delle laudi… Sempre, a quel ricordo, qualcosa in me tremava come in quel punto: m’assaliva di repente la tristezza di non saper pregare né cantare, e più acuto il senso della mia solitudine.
Poi tutto ciò dileguava. Perché dolermi? Ero piccola, ma non avrei voluto essere ingannata: dovevo crescere: avrei saputo, un giorno.
La sorellina, accanto a me, respirava tranquilla. Forse sognava una casa di cristallo per la sua bambola, una casa che io avevo promesso una volta, perché mi lasciasse maggiore spazio nel nostro letticciuolo. Non ero punto certa di poter soddisfare l’impegno! Mah… quando sarei grande! Allora avrei anche voluto più bene alle bambine e al fratello, non li avrei più fatti piangere; e avrei vista la mamma finalmente lieta…
Ora bisognava dormire. Avevo il capo un poco stanco. Desideravo per un momento di essere trasportata con un soffio su uno di quei pendii verdi che formavano la mia delizia, l’estate, in campagna. Suonavano da lontano, mi chiamavano tante campanelle…
Grazie per aver letto, a presto.
Nat