Mammina mia dammi la virtú di Patrizia Cavalli, Il nome della rosa #2 di Umberto Eco, Colapesce di Raffaele La Capria, Lezioni di italiano di Giuseppe Antonelli, Sinistra - destra di Antonio Polito
Buongiorno e buon fine settimana,
Eccomi con la mia selezione per questo sabato:
Pensiero del giorno: La solitudine fa bene solo se presa a piccole dosi: come quasi tutto, del resto. Quando diventa la condizione prevalente produce effetti malati, inducendo la mente a ingigantire le ombre e a trasformare in astrazioni nevrotiche le paure che non osa affrontare.
Massimo Gramellini, Sette, Corriere della sera
Canzone del giorno: Destra-sinistra di Giorgio Gaber
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
Ma io dico che la colpa è nostra
È evidente che la gente è poco seria
Quando parla di sinistra o destra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Fare il bagno nella vasca è di destra
Far la doccia invece è di sinistra
Un pacchetto di Marlboro è di destra
Di contrabbando è di sinistra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Una bella minestrina è di destra
Il minestrone è sempre di sinistra
Tutti i film che fanno oggi son di destra
Se annoiano son di sinistra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Le scarpette da ginnastica o da tennis
Hanno ancora un gusto un po' di destra
Ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
È da scemi più che di sinistra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
Con la giacca vanno verso destra
Il concerto nello stadio è di sinistra
I prezzi sono un po' di destra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
I collant son quasi sempre di sinistra
Il reggicalze è più che mai di destra
La pisciata in compagnia è di sinistra
Il cesso è sempre in fondo a destra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
La piscina bella azzurra e trasparente
È evidente che sia un po' di destra
Mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
Sono di merda più che sinistra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
L'ideologia, l'ideologia
Malgrado tutto credo ancora che ci sia
È la passione, l'ossessione della tua diversità
Che al momento dove è andata non si sa
Dove non si sa, dove non si sa
Io direi che il culatello è di destra
La mortadella è di sinistra
Se la cioccolata svizzera è di destra
La Nutella è ancora di sinistra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Il pensiero liberale è di destra
Ora è buono anche per la sinistra
Non si sa se la fortuna sia di destra
La sfiga è sempre di sinistra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
È un antico gesto di sinistra
Quello un po' degli anni '20, un po' romano
È da stronzi oltre che di destra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
L'ideologia, l'ideologia
Malgrado tutto credo ancora che ci sia
È il continuare ad affermare
Un pensiero e il suo perché
Con la scusa di un contrasto che non c'è
Se c'è chissà dov'è, se c'è chissà dov'è
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
La mancanza di morale è a destra
Anche il Papa ultimamente è un po' a sinistra
È il demonio che ora è andato a destra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
La risposta delle masse è di sinistra
Con un lieve cedimento a destra
Son sicuro che il bastardo è di sinistra
Il figlio di puttana è a destra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Una donna emancipata è di sinistra
Riservata è già un po' più di destra
Ma un figone resta sempre un'attrazione
Che va bene per sinistra e destra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
Ma io dico che la colpa è nostra
È evidente che la gente è poco seria
Quando parla di sinistra o destra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra
Destra, sinistra
Destra, sinistra
Destra, sinistra
Destra, sinistra
Destra, sinistra
Basta!
Lezioni di filosofia: Sinistra - destra di Antonio Polito
Poema del giorno: Mammina mia dammi la virtú, Patrizia Cavalli
Mammina mia, dammi la virtú, slacciami! Si avvicina allegria, potevo immaginarlo? Dove mi piacerebbe stare adesso? Naturalmente innaturale sempre con te che pure resti uguale. Mi fermo nei millimetri del particolare: la parte interna del labbro inferiore, cisterna dove cado imbambolata – nòcciolo di nespola, per arrivare a quella levigatezza bagnata tolgo la buccia mangio la nespola. Dove mi piacerebbe stare adesso con il sole mezzo addormentato il rumore allontanato? Ma qui, senz’altro. Avevo la risposta e l’ho detta. Spirituale spirito della bicicletta, fossi un ragazzo io e una ragazza tu, fosse il contrario anche, ti potrei baciare, mi potrei accostare, potrei succhiare quel nòcciolo di nespola. La frutta appena comprata io l’assaggio sempre per strada.
Lezioni di italiano di Giuseppe Antonelli
Il nome della rosa #2, Umberto Eco
Primo giorno Prima
Dove si arriva ai piedi dell’abbazia e Guglielmo dà prova di grande acume
Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole.
Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere l’Edificio. Era questa una costruzione ottagonale che a distanza appariva come un tetragono (figura perfettissima che esprime la saldezza e l’imprendibilità della Città di Dio), i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro dell’abbazia, mentre quelli settentrionali sembravano crescere dalle falde stesse del monte, su cui s’innervavano a strapiombo. Dico che in certi punti, dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse a un certo punto mastio e torrione (opera di giganti che avessero gran familiarità e con la terra e col cielo). Tre ordini di finestre dicevano il ritmo trino della sua sopraelevazione, così che ciò che era fisicamente quadrato sulla terra, era spiritualmente triangolare nel cielo. Nell’appressarvici maggiormente, si capiva che la forma quadrangolare generava, a ciascuno dei suoi angoli, un torrione eptagonale, di cui cinque lati si protendevano all’esterno – quattro dunque degli otto lati dell’ottagono maggiore generando quattro eptagoni minori, che all’esterno si manifestavano come pentagoni. E non è chi non veda l’ammirevole concordia di tanti numeri santi, ciascuno rivelante un sottilissimo senso spirituale. Otto il numero della perfezione d’ogni tetragono, quattro il numero dei vangeli, cinque il numero delle zone del mondo, sette il numero dei doni dello Spirito Santo. Per la mole, e per la forma, l’Edificio mi apparve come più tardi avrei visto nel sud della penisola italiana Castel Ursino o Castel dal Monte, ma per la posizione inaccessibile era di quelli più tremendo, e capace di generare timore nel viaggiatore che vi si avvicinasse a poco a poco. E fortuna che, essendo una limpidissima mattinata invernale, la costruzione non mi apparve quale la si vede nei giorni di tempesta.
Non dirò comunque che essa suggerisse sentimenti di giocondità. Io ne trassi spavento, e una inquietudine sottile. Dio sa che non erano fantasmi dell’animo mio immaturo, e che rettamente interpretavo indubitabili presagi iscritti nella pietra, sin dal giorno che i giganti vi posero mano, e prima che la illusa volontà dei monaci ardisse consacrarla alla custodia della parola divina.
Mentre i nostri muletti arrancavano per l’ultimo tornante della montagna, là dove il cammino principale si diramava a trivio, generando due sentieri laterali, il mio maestro si arrestò per qualche tempo, guardandosi intorno ai lati della strada, e sulla strada, e sopra la strada, dove una serie di pini sempreverdi formava per un breve tratto un tetto naturale, canuto di neve.
“Abbazia ricca,” disse. “All’Abate piace apparire bene nelle pubbliche occasioni.”
Abituato come ero a sentirlo fare le più singolari affermazioni, non lo interrogai. Anche perché, dopo un altro tratto di strada, udimmo dei rumori, e a una svolta apparve un agitato manipolo di monaci e di famigli. Uno di essi, come ci vide, ci venne incontro con molta urbanità: “Benvenuto signore,” disse, “e non vi stupite se immagino chi siete, perché siamo stati avvertiti della vostra visita. Io sono Remigio da Varagine, il cellario del monastero. E se voi siete, come credo, frate Guglielmo da Bascavilla, l’Abate dovrà esserne avvisato. Tu,” ordinò rivolto a uno del seguito, “risali ad avvertire che il nostro visitatore sta per entrare nella cinta!”
“Vi ringrazio, signor cellario,” rispose cordialmente il mio maestro, “e tanto più apprezzo la vostra cortesia in quanto per salutarmi avete interrotto l’inseguimento. Ma non temete, il cavallo è passato di qua e si è diretto per il sentiero di destra. Non potrà andar molto lontano perché, arrivato al deposito dello strame, dovrà fermarsi. È troppo intelligente per buttarsi lungo il terreno scosceso…”
“Quando lo avete visto?” domandò il cellario.
“Non l’abbiamo visto affatto, non è vero Adso?” disse Guglielmo volgendosi verso di me con aria divertita. “Ma se cercate Brunello, l’animale non può che essere là dove io ho detto.”
Il cellario esitò. Guardò Guglielmo, poi il sentiero, e infine domandò:
“Brunello? Come sapete?”
“Suvvia,” disse Guglielmo, “è evidente che state cercando Brunello, il cavallo preferito dall’Abate, il miglior galoppatore della vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e rotondo ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi grandi. È andato a destra, vi dico, e affrettatevi, in ogni caso.”
Il cellario ebbe un momento di esitazione, poi fece un segno ai suoi e si gettò giù per il sentiero di destra, mentre i nostri muli riprendevano a salire. Mentre stavo per interrogare Guglielmo, perché ero morso dalla curiosità, egli mi fece cenno di attendere: e infatti pochi minuti dopo udimmo grida di giubilo, e alla svolta del sentiero riapparvero monaci e famigli riportando il cavallo per il morso. Ci passarono di fianco continuando a guardarci alquanto sbalorditi e ci precedettero verso l’abbazia. Credo anche che Guglielmo rallentasse il passo alla sua cavalcatura per permettere loro di raccontare quanto era accaduto. Infatti avevo avuto modo di accorgermi che il mio maestro, in tutto e per tutto uomo di altissima virtù, indulgeva al vizio della vanità quando si trattava di dar prova del suo acume e, avendone già apprezzato le doti di sottile diplomatico, capii che voleva arrivare alla meta preceduto da una solida fama di uomo sapiente.
“E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a sapere?”
“Mio buon Adso,” disse il maestro. “È tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. Alano delle Isole diceva che
omnis mundi creatura
quasi liber et pictura
nobis est in speculum
e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l’universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo. Quasi mi vergogno a ripeterti quel che dovresti sapere. Al trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo, che puntavano verso il sentiero alla nostra sinistra. A bella e uguale distanza l’uno dall’altro, quei segni dicevano che lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità – così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano come una tettoia naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco giusto all’altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove l’animale deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda, tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini nerissimi… Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo ai piedi del torrione meridionale, bruttando la neve; e così come il trivio era disposto, il sentiero non poteva che condurre in quella direzione.”
“Sì,” dissi, “ma il capo piccolo, le orecchie aguzze, gli occhi grandi…”
“Non so se li abbia, ma certo i monaci lo credono fermamente. Diceva Isidoro di Siviglia che la bellezza di un cavallo esige «ut sit exiguum caput et siccum prope pelle ossibus adhaerente, aures breves et argutae, oculi magni, nares patulae, erecta cervix, coma densa et cauda, ungularum soliditate fixa rotunditas». Se il cavallo di cui ho inferito il passaggio non fosse stato davvero il migliore della scuderia, non spiegheresti perché a inseguirlo non sono stati solo gli stallieri, ma si è incomodato addirittura il cellario. E un monaco che considera un cavallo eccellente, al di là delle forme naturali, non può non vederlo così come le auctoritates glielo hanno descritto, specie se,» e qui sorrise con malizia al mio indirizzo, «è un dotto benedettino…»”.
“Va bene,” dissi, “ma perché Brunello?”
“Che lo Spirito Santo ti dia più sale in zucca di quel che hai, figlio mio!” esclamò il maestro. “Quale altro nome gli avresti dato se persino il grande Buridano, che sta per diventare rettore a Parigi, dovendo parlare di un bel cavallo, non trovò nome più naturale?”
Così era il mio maestro. Non soltanto sapeva leggere nel gran libro della natura, ma anche nel modo in cui i monaci leggevano i libri della scrittura, e pensavano attraverso di quelli. Dote che, come vedremo, gli doveva tornar assai utile nei giorni che sarebbero seguiti. La sua spiegazione inoltre mi parve a quel punto tanto ovvia che l’umiliazione per non averla trovata da solo fu sopraffatta dall’orgoglio di esserne ormai compartecipe e quasi mi congratulai con me stesso per la mia acutezza. Tale è la forza del vero che, come il bene, è diffusivo di sé. E sia lodato il nome santo del nostro signore Gesù Cristo per questa bella rivelazione che ebbi.
Ma riprendi le fila, o mio racconto, ché questo monaco senescente si attarda troppo nei marginalia. Di’ piuttosto che arrivammo al grande portale dell’abbazia, e sulla soglia stava l’Abate a cui due novizi sorreggevano una bacinella d’oro colma d’acqua. E come fummo discesi dai nostri animali, egli lavò le mani a Guglielmo, poi lo abbracciò baciandolo sulla bocca e dandogli il suo santo benvenuto, mentre il cellario si occupava di me.
“Grazie Abbone,” disse Guglielmo, “è per me una gioia grande mettere piede nel monastero della magnificenza vostra, la cui fama ha valicato queste montagne. Io vengo come pellegrino nel nome di Nostro Signore e come tale voi mi avete reso onore. Ma vengo anche a nome del nostro signore su questa terra, come vi dirà la lettera che vi consegno, e anche a suo nome vi ringrazio per la vostra accoglienza.” L’Abate prese la lettera coi sigilli imperiali e disse che in ogni caso la venuta di Guglielmo era stata preceduta da altre missive di suoi confratelli (dappoiché, mi dissi io con un certo orgoglio, è difficile cogliere un abate benedettino di sorpresa), poi pregò il cellario di condurci ai nostri alloggiamenti, mentre gli stallieri ci prendevano le cavalcature. L’Abate si ripromise di visitarci più tardi quando ci fossimo rifocillati, ed entrammo nella grande corte dove gli edifici dell’abbazia si estendevano lungo tutto il dolce pianoro che smussava in una morbida conca – o alpe – la sommità del monte.
Della disposizione dell’abbazia avrò occasione di dire più volte, e più minutamente. Dopo il portale (che era l’unico varco nelle mura di cinta) si apriva un viale alberato che conduceva alla chiesa abbaziale. A sinistra del viale si stendeva una vasta zona di orti e, come poi seppi, il giardino botanico, intorno ai due edifici dei balnea e dell’ospedale ed erboristeria, che costeggiavano la curva delle mura. Sul fondo, a sinistra della chiesa, si ergeva l’Edificio, separato dalla chiesa da una spianata coperta di tombe. Il portale nord della chiesa guardava il torrione sud dell’Edificio, che offriva frontalmente agli occhi del visitatore il torrione occidentale, quindi a sinistra si legava alle mura e sprofondava turrito verso l’abisso, su cui si protendeva il torrione settentrionale, che si vedeva di sghimbescio. A destra della chiesa si stendevano alcune costruzioni che le stavano a ridosso, e intorno al chiostro: certo il dormitorio, la casa dell’Abate e la casa dei pellegrini a cui eravamo diretti e che raggiungemmo traversando un bel giardino. Sul lato destro, al di là di una vasta spianata, lungo le mura meridionali e continuando a oriente dietro la chiesa, una serie di quartieri colonici, stalle, mulini, frantoi, granai e cantine, e quella che mi parve essere la casa dei novizi. La regolarità del terreno, appena ondulato, aveva permesso agli antichi costruttori di quel luogo sacro di rispettare i dettami dell’orientamento, meglio di quanto avrebbero potuto pretendere Onorio Augustoduniense o Guglielmo Durando. Dalla posizione del sole in quell’ora del giorno, mi avvidi che il portale si apriva perfettamente a occidente, così che il coro e l’altare fossero rivolti a oriente; e il sole di buon mattino poteva sorgere risvegliando direttamente i monaci nel dormitorio e gli animali nelle stalle. Non vidi abbazia più bella e mirabilmente orientata, anche se in seguito conobbi San Gallo, e Cluny, e Fontenay, e altre ancora, forse più grandi ma meno proporzionate. Diversamente dalle altre, questa si segnalava però per la mole incommensurabile dell’Edificio. Non avevo l’esperienza di un maestro muratore, ma mi avvidi subito che esso era molto più antico delle costruzioni che lo attorniavano,nato forse per altri scopi, e che l’insieme abbaziale gli si era disposto intorno in tempi posteriori, ma in modo che l’orientamento della grande costruzione si adeguasse a quello della chiesa, o questa a quello. Perché l’architettura è tra tutte le arti quella che più arditamente cerca di riprodurre nel suo ritmo l’ordine dell’universo, che gli antichi chiamavano kosmos, e cioè ornato, in quanto è come un grande animale su cui rifulge la perfezione e la proporzione di tutte le sue membra. E sia lodato il Creatore Nostro che, come dice Agostino, ha stabilito tutte le cose in numero, peso e misura.
Colapesce di Raffaele La Capria
C’era una volta… una bella giornata: col cielo tutto azzurro, il mare tutto calmo, l’aria luminosa e tiepida, e bianche vele lontano, come gabbiani docili all’onda. I gozzi dei pescatori rientravano dopo la pesca della notte nell’arco della marina, e che silenzio c’era intorno! L’acqua era trasparente, si vedevano gli scogli sommersi, le alghe e la sabbia ondulata del fondo, e i pesci che nuotavano snelli tra le maglie di sole smaglianti. Una giornata insomma come di rado se ne vedono ancora, una bella giornata di tanti e tanti anni fa, quando il mondo pareva più pulito intatto e nuovo, quasi fosse appena uscito dal fiato di Dio.
In quel silenzio si sentì la voce di una donna che chiamava: “Colaaa!… Colaaaa!…”
Quel nome risuonò nell’aria, arrivò sulla spiaggia dove i pescatori stavano rammendando le reti, e lo sentirono i ragazzini che stavano dando la caccia a granchi e gamberi tra gli anfratti della scogliera.
– Dove ti sei nascosto, disgraziato! – seguitava a dire la donna.
– Oggi neppure sei andato alla bottega di tuo padre. Come faremo con un figlio così scioperato! Sei diventato la mia disperazione! Lo vuoi capire che non si può passare tutto il tempo a nuotare nell’acqua del mare?…
Poi vide i ragazzini sulla scogliera e si avviò da quella parte. Forse suo figlio Cola stava lì, a perdere tempo con quei fannulloni.
– Avete visto Cola? – domandò.
Uno dei ragazzini indicò un punto sul mare.
– Sta là, laggiù.
La madre di Cola guardò nella direzione indicata, e lontano, sulla superficie piatta del mare, le parve di vedere qualcosa, come l’inarcarsi del dorso di un delfino tra la bianca schiuma. Ma dopo un attimo era scomparso. Un altro ragazzino disse:
– Ma no! Sta là!
E indicò un altro punto sull’orizzonte. La madre di Cola guardò, e anche stavolta le parve di vedere qualcosa.
Dopo un po’ ognuno dei ragazzini indicava un punto diverso e ognuno giurava che quel punto in mezzo al mare era Cola.
Allora la madre di Cola esasperata alzò le braccia al cielo e disse, come un’invocazione:
– Cola Cola! Se tanto ti piace il mare, nel mare devi restare e un pesce devi diventare!
E si allontanò, tutta corrucciata, avvolta nel suo vestito nero. I ragazzini rimasero per un momento silenziosi, ma quando la madre di Cola fu abbastanza distante uno di loro disse: “Colapesce!”, gli altri ripeterono ridendo questo nuovo nome affibbiato a Cola: “Colapesce! Colapesce!”, e ripetendolo si tuffavano in acqua tutti insieme, facevano capriole, prendevano la sabbia del fondo, si schizzavano, finché non furono stanchi.
Dopo qualche giorno, qualche mese e qualche anno, ecco passare proprio su quel mare la nave del Re di Messina. A prua della nave c’era un marinaio che guardava con un cannocchiale cercando un posto per gettare l’ancora. Ma quale fu la sua sorpresa quando vide, ingrandito nel vetro del cannocchiale, uno strano pesce che pesce però non era, anche se nuotava veloce come un pesce e scompariva sott’acqua per riemergere dopo un po’. Non fidandosi dei propri occhi questo marinaio chiamò:
– Capitano! Capitano!
Il capitano arrivò di corsa:
– Si può sapere che hai visto, che gridi a quel modo?
– Guardate qui, capitano!
– Devi dire: signor capitano! Lo vuoi capire che siamo sulla nave del Re?
– Sì, signor capitano. Ma ora guardate. O io sono pazzo, o quello è…
Il capitano prese il binocolo e guardò:
– È un pesce! – disse. Ma poi ci ripensò:
– No, è un uomo!… Ma no, ora sembra un pesce…
Era talmente occupato a guardare e talmente meravigliato che non s’era nemmeno accorto che il Re, il Re in persona, si era avvicinato a lui, e incuriosito aspettava di sapere cosa avesse visto.
Il Re di Messina s’era svegliato male quella mattina. Quando era di cattivo umore la corona che aveva in testa ogni tanto gli scivolava da un lato e lui con un gesto nervoso se la rimetteva a posto. Era avvolto in un mantello di velluto rosso con bellissimi ricami, ma siccome era molto trasandato, addosso a lui pareva una vestaglia. Ogni tanto ci incespicava dentro, e sarebbe caduto se un cortigiano premuroso non lo avesse sostenuto.
Guai se lo avesse fatto cadere! Gli avrebbero tagliato subito la testa. I Re a quei tempi non scherzavano.
Dunque il Re, dopo aver aspettato un po’, s’era rivolto alla Regina e ai cortigiani del seguito, che avevano fatto cerchio intorno a lui:
– Bel capitano mi sono scelto! Non sa distinguere nemmeno un uomo da un pesce!
La Regina e i cortigiani erano scoppiati in una risata, si tenevano la pancia dal gran ridere, trovavano sempre molto spiritoso quello che diceva il Re, ma non sapevano mai quando dovevano ridere e quando no.
Questa volta il Re infastidito li fece subito smettere con un cenno della mano.
– Allora – domandò al capitano – si può sapere cos’è? Un uomo o un pesce?
Il capitano non osava rispondere, e in quel silenzio imbarazzante, un marinaio azzardò:
– Potrebbe essere Colapesce.
Il Re che non aveva ben capito lo fece avvicinare.
– Ripeti quello che hai detto, marinaio.
– Maestà, potrebbe essere Colapesce.
– E chi è Colapesce? – gli chiese il Re.
– Uno che è mezzo uomo e mezzo pesce.
– Marinaio, vuoi prendermi in giro? Guarda che io ti faccio tagliare la testa all’istante.
– Maestà, non mi permetterei mai di prendere in giro il mio Re, non mi passa nemmeno per la testa. Io alla mia testa ci tengo.
– E allora vuoi dire che in queste acque nuota uno che è mezzo uomo e mezzo pesce?
– Sì, Maestà. Potete domandarlo. Molti pescatori lo hanno visto e gli hanno parlato.
– Pure parlato gli hanno? – domandò il Re diffidente, ma incuriosito. – E che dice?
– Dice che lui era un ragazzino come tutti gli altri, ma gli piaceva di starsene a mare dalla mattina alla sera, e non andava più a lavorare nella bottega del padre. Un giorno la madre, che era un po’ strega, gli aveva gridato: “Pesce devi diventare!” E piano piano Cola cominciò a sentirsi pesce.
– A sentirsi pesce? E come si fa a sentirsi pesce?
– Riusciva a stare sott’acqua, per ore come i pesci, tanto che a casa non ci tornò più, e allora la madre ne fu così disperata che per il dolore ne morì.
Il Re non sapeva bene se credere o no a questa storia, ma il marinaio aveva parlato con l’aria convinta di uno che dice la verità. Dopo un lungo silenzio il Re ordinò:
– Capitano, gettate le ancore in questa rada! Ci fermiamo qui. E tu, marinaio, spargi la voce che il Re di Messina vuole parlare con Colapesce.
E, accompagnato da tutto il seguito, si ritirò nella cabina. Non poteva ammettere che nel suo regno vivesse uno mezzo uomo e mezzo pesce e il Re non ne sapesse nulla. Una cosa simile non era mai accaduta.
Le ancore furono immediatamente gettate nella rada, la nave rimase ferma a dondolare sulle onde, e il marinaio disse a tutti i pescatori che si avvicinavano con le loro barche di spargere la voce che il Re voleva parlare a Colapesce. Così i pescatori cominciarono a gridare:
– Colaa! Ohi Colaaa! Il Re di Messina ti vuole parlare!
Ma nessuno rispondeva al loro richiamo. Chissà Cola dov’era. Forse stava nuotando sott’acqua, e sott’acqua non poteva sentire.
I pescatori si passavano la voce da una barca all’altra, e tutto il mare intorno risonava del loro richiamo:
– Colaa! Ohi Colaaa! Vieni a galla, Il Re di Messina ti aspetta alla sua nave!
Una volta o l’altra avrebbe sentito.
Passarono così tre giorni senza che nessuno si facesse vivo. Il Re era sempre più infuriato, e aveva proprio voglia di tagliare la testa a qualcuno per sfogare la sua rabbia. I cortigiani che lo seguivano mentre passeggiava nervosamente sul ponte della nave lo sapevano e cercavano di dargli sempre ragione, di non contraddirlo mai.
– Quella nuvola non vi pare che rassomigli a un cammello? – disse guardando una nuvola.
Tutti i cortigiani alzarono lo sguardo, poi uno esclamò:
– Pare proprio un cammello!
E gli altri in coro ripeterono:
– Sì, sì, un cammello, un cammello!
– A me pare piuttosto un coniglio – disse il Re.
– Infatti rassomiglia proprio a un coniglio! – esclamò premuroso il cortigiano.
E gli altri ripeterono precipitosi:
– Sì, sì, un coniglio, un coniglio!
– Anzi – disse il Re soprappensiero – rassomiglia a un uomo per metà pesce…
E mentre i cortigiani anche questa volta confermavano, trovando che sì, effettivamente quella nuvoletta sembrava un uomo per metà pesce, il Re, preso da un’ira improvvisa ordinò:
– A proposito, chiamatemi quel marinaio che ha parlato di Colapesce, e chiamatemi il capitano.
Uno dei cortigiani corse a chiamare il marinaio e il capitano, mentre gli altri guardavano preoccupati e in silenzio la faccia corrucciata del Re.
Appena il Re si vide davanti i due malcapitati, disse:
– Sono tre giorni e tre notti che il Re aspetta Colapesce, ma di Colapesce niente si sa. Perciò, capitano, leviamo le ancore e partiamo.
Poi rivolto al marinaio disse:
– E tu, marinaio, che mi hai raccontato tante frottole su questo inesistente Colapesce, devi aver tagliata la testa. Così impari a dire le bugie al tuo Re.
Mentre i cortigiani ridevano contenti che almeno loro se l’erano scampata, il marinaio trovò la forza di rispondere:
– Maestà, io ho detto solo quello che tutti sanno da queste parti.
Ma il Re, più infuriato che mai, replicò:
– Tutti sanno qualcosa che io non so? Impossibile! Avrai tagliata la testa.
In quel momento si sentì un gridio festoso dal mare, proprio lì, sotto la nave. Il Re s’affacciò dal parapetto per guardare, e vide un nugolo di ragazzini dai corpi magri svelti e neri di sole, che sguazzavano pieni di gioia di vivere nell’acqua bianca di schiuma, e agitavano le braccia verso i cortigiani e la Regina che si divertivano a lanciare monetine nell’acqua. Quelli, prima che la monetina raggiungesse il fondo si precipitavano sott’acqua ad afferrarla, con veloci sommozzate. I più bravi l’afferravano con la bocca e poi ritornavano in superficie con la monetina stretta tra i denti. Per un po’ lo spettacolo distrasse il Re e lo fece perfino sorridere. Ma poi di nuovo il suo volto si rannuvolò, e si mise a strillare:
– Capitano! Capitano!
Il capitano accorse trafelato.
– Capitano, si parte o non si parte? – gli domandò il Re. Il capitano disse che un’ancora si era incagliata tra gli scogli e non si riusciva a liberarla.
– Manda qualcuno a liberarla – fece il Re spazientito.
– Maestà – rispose il capitano – l’ancora è incagliata in un punto troppo profondo e non c’è nessuno che riesce ad andare sott’acqua a quella profondità. Nessun uomo ce la può fare.
– E va bene – disse il Re – Allora taglia la corda e partiamo senza l’ancora, ma quando arriviamo a Messina anche la tua testa taglieremo.
Il capitano che ci teneva ad avere la testa sul collo più a lungo possibile, corse a prua ad incitare i marinai che cercassero con ogni mezzo di liberare l’ancora. Tentarono tutte le manovre possibili, ma l’ancora rimaneva incastrata sul fondo. Il marinaio che aveva parlato al Re di Colapesce cominciò a sospirare:
– Ohi Cola, Cola! Chi me lo ha fatto fare di parlare di te? Lo dovevo sapere che il Re è più curioso di un gatto!
Un altro marinaio aggiunse:
– E appena il gatto ha sentito l’odore di Colapesce…
Tutti i marinai si misero a ridere, ma il capitano non aveva nessuna voglia di ridere:
– Manigoldi! Non avete capito che se non si libera l’ancora il Re mi fa tagliare la testa? E voi avete anche il coraggio di ridere?
– Qui ci vorrebbe Colapesce – disse uno.
– Colapesce, Colapesce! Basta con questo Colapesce!
– borbottò il capitano sconsolato – per causa sua il Re è di cattivo umore e io sono nei guai!
Mentre stavano così parlando e trafficando, ecco emergere, proprio davanti alla prua della nave, la testa ricciuta di un ragazzino. Aveva in bocca un pesciolino vivo che si dibatteva tra le sue labbra, ma rideva talmente che il pesciolino gli sfuggì. Il suo viso non aveva niente di notevole, tranne una grande vivacità che gli sprizzava dagli occhi, eppure a guardar bene era diverso dagli altri ragazzini, sembrava più sciolto nei movimenti, il suo corpo si muoveva nell’acqua con più disinvoltura, come quello di un pesce, ondeggiando snodato e luccicante. E poi tra i capelli neri e crespi qualche alga marina doveva aver messo radici, qualche conchiglietta era rimasta attaccata alla fronte e alle orecchie. I marinai e il capitano lo guardavano dall’alto della prua, e alla fine fu il capitano a dirgli:
– Ehi, ragazzino, levati di torno. Che vuoi?
– Io non voglio niente – rispose il ragazzino e fece qualche capriola nell’acqua. – È il Re che mi vuole parlare.
– Sì, il Re vuole parlare a uno scugnizzo come te! – disse il capitano. – Va, va, è meglio che te ne vai, altrimenti ti metti nei pasticci.
E riprese a trafficare intorno alla fune tentando di liberare l’ancora. Il ragazzino vedendo tanti sforzi vani, domandò:
– Si può sapere che state a trafficare con quella fune?
– L’ancora si è incastrata negli scogli – gli spiegò un marinaio – e se non si libera non possiamo muoverci.
– Be’, se è per così poco, vado giù io e ve la libero. Il marinaio rise:
– Ah, si? E allora facci vedere che cosa sai fare.
Senza farselo ripetere due volte il ragazzino scomparve sott’acqua. Passò un minuto, due minuti, tre minuti ma il ragazzino non compariva a galla. Il capitano e i marinai si guardavano in faccia increduli.
Poi uno disse:
– Ci ha voluto fare uno scherzo. Si sarà nascosto in qualche parte intorno alla nave.
Un altro disse:
– Io una volta ho conosciuto un tale che resisteva sott’acqua quasi due minuti…
Stavano ancora discutendo di questo quando arrivò il Re col suo solito codazzo di cortigiani e la corona più storta che mai sulla testa:
– Fannulloni! Voglio partire! Voglio tornare a Messina! C’è stato un terremoto e io mi sono messo in salvo su questa nave. Ma ora devo ritornare per confortare il mio popolo. Voi mi fate perdere il tempo e la corona!
Il capitano gli spiegò che stavano cercando di liberare l’ancora.
Ancòra l’àncora! – sbottò il Re. E poi, con una certa gioia maligna domandò:
– E come fate a liberarla, capitano?
– È sceso un ragazzino sul fondo per tentare.
– Non mi avevi detto che il mare è troppo profondo in questo punto? Su, taglia la corda, capitano, che poi io taglierò il resto!
I cortigiani che avevano colto l’allusione risero sgangheratamente. Ma il capitano che teneva in mano la corda sentì due strattoni e capì che il ragazzino gli dava il segnale di tirarla su.
– Issate l’ancora! – gridò pieno di speranza.
Subito i marinai eseguirono la manovra, e infatti l’ancora man mano veniva su.
– Ce l’ha fatta!
– Ce l’ha fatta! – ripeterono i marinai felici, e in un batter d’occhio l’ancora fu tirata a bordo. Poi tutti rimasero in silenzio a guardare il mare.
– Be’ – disse il Re – e adesso che c’è?
– Il ragazzino che è sceso giù a liberare l’ancora non è tornato a galla – mormorò il capitano.
– Da quanto tempo sta sott’acqua? Il Re domandò.
– Saranno più di cinque minuti.
– Allora è morto! – disse il Re. – O è morto o l’ancora s’è liberata da sola. Nessuno può resistere cinque minuti sott’acqua. Adesso andiamocene, e ringrazia il santo che ti protegge.
Proprio in quel momento il ragazzino schizzò a galla. Si sentì l’applauso dei marinai e tutti gli gridarono:
– Bravo! Bravo!
Il Re incuriosito lo chiamò:
– Di’ un po’, tu. Che ci facevi intorno alla mia nave?
– Sono venuto perché il Re mi voleva parlare – rispose il ragazzino senza scomporsi.
Il Re si mise a ridere.
– Ah, sì? E che voleva da te?
– Non lo so. Mi hanno detto: “Cola, il Re ti cerca, che vuole parlarti”:
– Allora saresti tu Colapesce.
– Sì.
Un mormorio di stupore corse sulla nave tra i marinai e i cortigiani, e il più felice di tutti era il marinaio che avrebbe dovuto aver tagliata la testa.
– Lo dicevo io! Lo dicevo! – ripeteva.
Ma il Re s’era un po’ urtato per i modi troppo disinvolti di Colapesce e lo avvertì:
– Quando io ti rivolgo la parola devi sempre rispondere: Sì, Maestà. Perché io non sono solo il Re di Messina, sono anche Re del mare dove tu sguazzi. Hai capito?
– Sì Maestà il Re!
Il Re rabbonito da questa risposta, ma sempre un po’ diffidente disse:
– Così va bene. E ora, Cola, devi darmi la prova che tu sei veramente Colapesce.
– Sono pronto, Maestà il Re.
– Io faccio sparare dalla mia nave una palla di cannone in mare aperto, e tu me la riporti. Va bene?
Ci fu un altro mormorio di stupore tra i cortigiani e i marinai. Allora il Re ordinò di caricare il cannone più grosso con una palla di ferro. I marinai corsero ad eseguire l’ordine, caricarono il cannone, e aspettarono il segnale del Re.
Il Re gridò:
– Fuoco!
Ci fu uno scoppio più forte di un tuono, e la palla fischiando e rombando uscì dalla bocca del cannone. Tutti gli occhi si alzarono per seguirne la traiettoria. La palla salì in alto, sempre più in alto nel cielo azzurro, arrivò fino all’altezza d’una nuvoletta, la scavalcò, poi con una gran curva cominciò a discendere, finché si vide lontanissimo, dove il mare era più profondo, uno spruzzo bianco nel punto dov’era caduta.
– Se sei Colapesce – disse il Re – devi andarla a riprendere e devi riportarmela qui. Altrimenti è meglio che tu non compaia più alla mia presenza e resti per sempre in fondo al mare.
Cola con una capriola s’immerse sott’acqua e cominciò a nuotare verso il punto dov’era caduta la palla di cannone. I suoi occhi erano abituati, come quelli dei pesci, a guardare il mondo sottomarino, e così riusciva a vedere ogni cosa come attraverso un vetro.
Vedeva i contorni degli scogli, la sabbia ondulata, i tappeti di alghe verdi e marrone, e gli piaceva questo paesaggio silenzioso, che si stendeva sotto di lui, gli pareva di volare.
Ogni tanto incontrava frotte di pesci che filavano allegri insieme a lui e lo accompagnavano per un tratto: “Dove vai Cola?” gli domandavano nel loro linguaggio, e Cola che li capiva diceva che andava a prendere una palla di cannone, perché così gli aveva ordinato il Re.
Lo diceva al modo dei pesci, emettendo bollicine d’aria, aprendo e chiudendo la bocca a intervalli, muovendo il corpo a guizzi e scatti, girandosi con la pancia in su e facendo capriole, girotondi ed altri segnali: è questo il linguaggio dei pesci, così riescono a dirsi quasi tutto, e anche Cola aveva imparato a parlare come loro.
Dopo aver nuotato per un bel po’ Cola cominciò a domandare ad ogni pesce che incontrava:
– Hai visto per caso affondare una palla di ferro?
Ogni pesce gli indicava la direzione giusta da tenere, perché i pesci si accorgono di tutto quello che accade sott’acqua, anche se accade molto lontano da loro. Così Cola seguendo le indicazioni arrivò dov’era caduta la palla di cannone. Ora la vedeva: era finita in un punto dove la sabbia pareva un tappeto d’argento, e intorno alla palla c’era un andirivieni di cefali, saraghi, orate, che sono pesci molto curiosi. Stavano tutti a domandarsi cosa mai poteva essere quella palla caduta dal cielo e a che cosa poteva servire.
Cola scese sul fondo, prese la palla con entrambe le mani, e si accorse che sott’acqua anche una palla di ferro era abbastanza leggera e facile da portare. Così, tenendo la palla con le mani, e nuotando solo con i piedi, ritornò verso la nave.
Ne vide prima la sagoma scura e l’ombra che si proiettava sul fondo sabbioso, poi passò sotto la chiglia, che era come il pancione di una balena, ed emerse dal lato opposto a quello dove il Re e il suo seguito e tutto l’equipaggio erano intenti a scrutare il mare. Silenziosamente s’arrampicò sulla fiancata della nave, e senza che nessuno ancora si accorgesse di lui, si trovò sul ponte. Uno dei cortigiani stava dicendo:
– Se volete il mio parere, non ce la farà. La palla è andata troppo lontano.
– Zitto tu – gli rispondeva il Re – se non vuoi che mandi te a prendere la palla.
A Cola venne da ridere.
– Maestà il Re! Maestà il Re! – esclamò. – Ecco la palla! Tutti si voltarono con un sobbalzo, e per la sorpresa poco mancò che la corona del Re cadesse in mare. Un cortigiano fece appena in tempo ad afferrarla. Il Re se la rimise in testa, e poi guardando sospettosamente Cola disse:
– È proprio quella che ho fatto sparare?
– Sì Maestà il Re!
– Basta che dici solo Sì Maestà!
– Sì Maestà, è proprio quella.
– E come hai potuto in così poco tempo?
– Maestà i pesci mi hanno insegnato a nuotare più velocemente delle navi.
– Allora è vero che sei Colapesce, mezzo uomo e mezzo pesce!
Tutti guardavano Cola e ora si accorgevano che era un po’ diverso dagli altri ragazzini.
A furia di nuotare le mani e i piedi gli erano diventati più larghi, quasi fossero delle pinne, e tra le dita gli era spuntata come una leggera membrana, la sua pelle era tutta coperta di sale e scaglie. I ciuffi d’alga crespa intrecciati coi capelli gli scendevano sulla schiena, e invece di un costumino aveva due conchiglie che lo coprivano. Uno dei cortigiani non riuscì a trattenersi:
– Guarda quelle mani!
– Come le zampe di un’anatra! – disse la Regina.
– Ih! Che schifo! – fece una sua dama di compagnia. Colapesce si sentiva a disagio sotto quegli sguardi, ma il Re disse alla dama:
– Zitta, pettegola! Altrimenti ti faccio tagliare la lingua. Al che la Regina, infastidita, borbottò:
– Accidenti, e quanto taglia!
Il Re era troppo preso e incuriosito da Colapesce per sentire. Anzi guardandolo gli era venuta un’idea:
– Ascolta Cola. Se è vero che puoi nuotare più veloce di una nave dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia e sapermi dire dov’è che il mare è più profondo, e che cosa si vede là sotto.
– Sarà fatto Maestà.
– Quanti giorni ti ci vorranno per fare questo giro?
– Sette giorni, Maestà.
– Sei sicuro di farcela in così poco tempo?
– Sì Maestà.
– Bene Cola, tra sette giorni a mezzogiorno ti do appuntamento all’imbocco del porto di Messina. Là starò ad aspettarti. Bada di non mancare all’appuntamento, e sappi riferire tutto quello che vedi. Voglio sapere se la mia isola è poggiata bene sul fondo del mare.
– Obbedisco Maestà! – rispose Cola, e con un bel tuffo saltò in acqua.
Mentre si allontanava nuotando come un delfino, salutò più volte col braccio il Re. E il Re, cosa insolita, gli rispose. Cominciava a provare una certa simpatia per questo Colapesce, una simpatia, a dire il vero, non del tutto disinteressata.
Quando tornò con la sua nave a Messina il Re vide che il molo era deserto e nessuno dei suoi sudditi era venuto al porto per festeggiarlo.
Arrivato alla reggia chiamò i suoi consiglieri:
– Perché non è venuto nessuno a festeggiarmi quando sono tornato con la mia nave a Messina?
E i consiglieri gli dissero:
– Maestà, sono infuriati con voi perché ogni volta che la terra trema a Messina voi scappate via sulla vostra nave per mettervi in salvo, senza curarvi di quelli che restano a terra.
Allora il Re, che era molto furbo, fece radunare la popolazione nella piazza, e affacciatosi al balcone della reggia disse:
– Io non sono scappato perché ho paura del terremoto, ma perché dovevo incontrare Colapesce, uno mezzo uomo e mezzo pesce. Gli ho ordinato di fare sott’acqua il giro della Sicilia. Al suo ritorno questo Colapesce ci dirà quello che ha visto, e così sapremo perché la terra trema in questa nostra bella isola.
La gente applaudì, e tutti da quel momento aspettavano il ritorno di Colapesce. Poi il Re radunò in segreto i suoi scienziati e domandò loro se avevano scoperto perché la terra dell’isola tremava.
Uno scienziato disegnò una mela e disse:
– Mettete una mela sul fuoco e vedrete che da qualche parte si aprirà un forellino sulla buccia. Da quel forellino a poco a poco uscirà quasi tutta la polpa della mela, che rimarrà mezza vuota, anche se sembra piena. Se si mette un peso sulla buccia della mela la buccia cederà.
Ma nessuno aveva capito, e il Re ordinò allo scienziato di spiegarsi meglio.
– La mela – disse lo scienziato – è la terra dove camminiamo. Il forellino è il cratere del vulcano qui vicino che sputa fuoco e lava. Il peso sono le case della nostra città. Tutti rimasero a bocca aperta, la spiegazione era troppo complicata. Allora si alzò un altro scienziato e fece vedere a tutti una carta geografica della Sicilia:
– Questa è la Sicilia – disse. – È un isola perché è tutta circondata dal mare. Ha la forma di un triangolo perché ha tre lati. Qui, in questo angolo, c’è Messina, e qui, vicino a Messina, c’è il vulcano, l’Etna.
Tutti guardavano la carta geografica: il mare sulla carta era dipinto d’azzurro. La Sicilia era dipinta in verde. Le montagne e il vulcano erano dipinte in marrone. E le città erano segnate con dei puntini piccolissimi.
– Ora – proseguì il secondo scienziato – immaginate che la Sicilia sia come un tavolo con tre piedi. Se uno dei tre piedi è più corto degli altri due il tavolo tentenna. E così fa la Sicilia. Ci dev’essere un punto dove non poggia bene sul fondo del mare, perciò tentenna, e così la terra trema. Ma anche questa spiegazione era troppo complicata. La Regina e i cortigiani sbadigliavano, a tutti era venuto sonno. Il Re allora si alzò e disse:
– Io gli scienziati non li capisco. Aspettiamo Colapesce e sentiamo quello che lui riferirà. Poi sapremo cosa fare. E così anche lui se ne andò a letto a dormire. Ma non riusciva a prender sonno, pensava a Colapesce. “Come faccio se Colapesce non ritorna in tempo? Cosa dirò alla gente? Nessuno mi crederà più, tutti mi abbandoneranno, e io non sarò più il Re…”.
Si può immaginare, perciò, con quanta impazienza il Re aspettava il ritorno di Colapesce.
Colapesce intanto aveva già cominciato il suo viaggio da un bel pezzo. Aveva visto il paesaggio sottomarino spalancarsi sotto di lui e poi dilatarsi sempre più in tutta la sua vastità, ed anche a lui che ci era abituato, ogni tanto veniva da pensare: “Come è grande il mare, e come è pieno di cose, e come è sempre vario e mutevole!”. Aveva visto catene di monti sommerse, rocce di tutti i colori, che sparivano in voragini violette, a strapiombo, giù, giù, sempre più giù! Aveva visto foreste di piante stranissime, le gorgonie, le oloturie, intricate barriere coralline bianche rosa rosse, aveva visto valli, caverne e perfino i resti di una città.
Aveva visto un’isola con un vulcano che vomitava fuoco, e quando il fuoco arrivava come un fulmine nel mare, il mare bolliva intorno come una pentola, e si levava un fumo che copriva il cielo…
Quell’isola si chiamava Stromboli. Non era mai stato così lontano dal posto dov’era nato, ma aveva fatto al Re la promessa di compiere il giro completo della Sicilia, perciò nuotava con tutte le sue forze, per arrivare in tempo.
La sera, quando le acque del mare diventavano buie, lui approdava su qualche solitaria spiaggetta e s’addormentava. Altre volte dormiva sdraiato sull’acqua come sopra un soffice materasso. Faceva il morto, chiudeva gli occhi, e le onde lo cullavano finché lui non si addormentava.
Mentre dormiva così, galleggiando, per poco non fu investito da un veliero. Riuscì ad aggrapparsi alla chiglia e poi al timone, e si fece trascinare per un bel pezzo. Incontrava spesso branchi di delfini, che erano di buona compagnia e avevano sempre voglia di divertirsi. Colapesce era bravissimo a cavalcarli, e quando non aveva voglia di nuotare, saltava loro in groppa, e via!
Un giorno incontrò un pesce che non aveva mai visto prima:
– E tu chi sei? – gli domandò, impressionato dal suo aspetto.
E quello in modo molto ampolloso gli disse che era la Manta.
– La Manta – fece Colapesce, e continuava a guardarlo, stupito.
– Sì, la Manta, la Manta, non mi hai mai sentito nominare?
– Certo, certo – lo rassicurò Colapesce – ma non avevo mai incontrato una Manta, mai una Manta così bella, volevo dire.
Era un pesce, la Manta, largo e piatto come una sogliola, e grande quanto un lenzuolo. Quando nuotava pareva avesse delle ali come due vele che muoveva lentamente aprendole e chiudendole come un mantello, tanto che pareva un enorme gabbiano che volasse sott’acqua.
– Afferrati alla mia coda – disse la Manta lusingata dai complimenti che le aveva fatto Colapesce – e dimmi dove vuoi andare, ti porterò io.
– Voglio esplorare la parte più profonda del mare – disse Colapesce.
Così, afferrato alla coda della Manta, Colapesce cominciò a scendere negli abissi sottomarini. Man mano che scendeva la luce del sole arrivava sempre più fioca, il mare diventava sempre più scuro e freddo, e da azzurro fu verde, poi blu, e infine nero come la notte.
– Non si vede niente quaggiù – mormorò Colapesce spaventato.
La Manta allora chiamò i pesci degli abissi, che arrivarono a frotte. Erano piuttosto brutti a vedersi, e sul corpo avevano una luce come quella che emanano le lucciole, ma più forte, che rischiarava il buio intorno. Così Colapesce scortato da migliaia di questi pesci luminescenti poté esplorare la parte più profonda del mare che circonda la Sicilia.
Il suo viaggio ormai stava per finire. Colapesce non aveva mai nuotato tanto in vita sua, non era mai sceso in punti così profondi, e si sentiva stanco, molto stanco, anche se poteva stare nell’acqua come un pesce. Quanti giorni mancavano all’appuntamento col Re? Si fece il conto sulle dita di una mano: mancava un altro giorno, solo un altro giorno. Decise perciò di riposarsi un poco sopra una spiaggetta disabitata, per riprendere le forze.
Intanto, allo scadere del sesto giorno, Il Re aveva fatto costruire sul mare un pontile di palafitte a forma di U. In fondo alla U c’era il suo palco, con un baldacchino a strisce colorate, e il trono. Al suo fianco c’erano la Regina e i cortigiani e gli scienziati. Ai due lati della U, su sedili a gradinata, c’erano gli abitanti di Messina, venuti in gran folla a vedere Colapesce.
C’erano tante bandiere che ondeggiavano al vento, e c’era un pennone alto come l’albero di una nave, sul quale un uomo scrutava il mare.
Non appena avesse visto apparire Colapesce avrebbe dato l’annuncio con uno squillo di tromba.
Faceva un gran caldo, i cortigiani nei loro vestiti d’oro e argento sbuffavano, sudavano e si asciugavano il sudore coi fazzoletti. Anche la folla si agitava e fremeva nell’attesa. Ma più di tutti si agitava il Re, che ogni momento domandava:
– S’è visto niente? Ancora niente?
Un cortigiano osservò:
– Ma come si fa a credere alla parola di uno che non è nemmeno uomo per intero?
Il Re lo sentì:
– E tu credi di essere un uomo intero?
Il cortigiano guardò preoccupato il proprio corpo e domandò:
– Perché, non sono intero?
– Se dici un’altra parola ti faccio dimezzare! – lo zittì il Re, nervoso e preoccupato perché ancora non si vedeva arrivare Colapesce.
La Regina per calmarlo gli disse:
– Maestà, l’appuntamento era per mezzogiorno, e non è ancora mezzogiorno.
– Eh, già – ripeterono i cortigiani con sollievo. – Non è ancora mezzogiorno. Aveva detto a mezzogiorno. Io ricordo benissimo: mezzogiorno.
Il Re però non ce la faceva a resistere all’attesa:
– Fate mettere un’altra vedetta sull’albero della mia nave – ordinò – e fate spargere la voce che chi avvista per primo Colapesce avrà un sacchetto di monete d’oro.
Quando fu data questa notizia gli occhi di tutti fissarono il mare con più intensità, e ognuno sperava di vedere per primo Colapesce e di guadagnare le monete d’oro.
Ma Colapesce non sapeva niente di questi preparativi, si stava ancora riposando sulla spiaggetta. Aveva dormito tutta la notte sul bordo della spiaggia, col corpo metà nell’acqua e metà fuori dall’acqua. Respirava ancora con un po’ di affanno, e pensava: “Mamma mia che fatica! Chi poteva immaginare che la Sicilia fosse un’isola così grande!”. La sua testa era appoggiata sopra una duna di sabbia, come sopra un cuscino. Ed ecco che all’improvviso quel cuscino cominciò a muoversi. Colapesce stupito si mise a sedere e vide che dalla sabbia, da cui era coperta, veniva fuori una grossa tartaruga marina. Pareva si fosse risvegliata da un sonno lunghissimo. Voltò lentamente la testa grinzosa verso Colapesce e con la voce di un vecchio saggio gli disse:
– Cola! Non riconosci i vecchi amici?
– La tartaruga che mi ha insegnato a nuotare! – esclamò Cola, felice di rivederla. Era stata infatti quella tartaruga ad insegnare a Cola i primi movimenti per nuotare quando Cola era ancora piccolo.
– Cosa hai fatto in tutto questo tempo? – gli domandò Cola.
– Ho dormito – rispose la tartaruga – chissà quanti anni ho dormito…
– Come ti invidio – disse Cola. – Anche io dormirei per qualche anno. Sono sette giorni che nuoto e guardo il fondo del mare per conto del Re di Messina, e sono stanco ormai. Dopotutto non sono proprio un pesce, sono anche un uomo, e questa metà di me stesso s’è stancata parecchio. Ho appuntamento tra qualche ora a Messina, col Re, ma sono tanto stanco che ho paura di non fare in tempo.
– Cola, tu lo sai, a terra io sono lenta e goffa – disse la tartaruga – però a mare vado forte e ho molta resistenza. Se vuoi ti do un passaggio fino a Messina. Sdraiati sopra il mio guscio. È un po’ duretto, ma ti ci abituerai.
– Grazie, grazie tanto! Senza di te non so come avrei fatto!
– Che gliene importa al Re di Messina di sapere com’è il fondo del mare? – disse la tartaruga ripensandoci.
– Dev’essere un Re molto curioso.
– Avrà le sue ragioni – rispose Colapesce.
– Io sono vecchia, Cola, ho duecentocinquant’anni, e sono saggia. Perciò del Re di Messina non mi fiderei. Meglio non averci a che fare con gente simile.
– Perché?
– Che ne pensi tu di un Re che quando c’è il più piccolo segno di pericolo abbandona la città e si mette in salvo sulla sua nave?
Colapesce rimase soprappensiero, ma era troppo stanco per rispondere.
Si sdraiò sul dorso della sua amica tartaruga, e questa entrò lentamente in mare, diretta a Messina.
Si sentì un suono di tromba prolungato. Il Re e i cortigiani si alzarono in piedi per guardare. Tutti indicavano un punto. Si vedeva qualcosa come una zattera (che poi era il dorso della tartaruga) e sopra disteso un ragazzino (che poi era Colapesce) che pareva addormentato. Sentendo le urla e gli applausi della folla Colapesce si svegliò, si strofinò gli occhi e sulle prime non capì neppure dove si trovava.
– Cola? Ma che fai? – gli disse il Re che lo aveva chiamato presso di sé. – Il tuo Re ti parla e tu nemmeno gli rispondi?
Allora Cola si sedette sul guscio della tartaruga, si puntellò con le mani, e finalmente s’accorse che la tartaruga lo aveva portato davanti al trono del Re, s’accorse di tutta quella gente che lo guardava con meraviglia, capì che il suo viaggio era felicemente concluso. Si scusò:
– Sono molto stanco, Maestà, e mi sono addormentato. Non credevo che il viaggio fosse così lungo e faticoso. Ma il Re voleva sapere tante cose, e lo tempestava di domande:
– Dimmi, Cola, com’è il fondo del mare intorno alla Sicilia?
– Ci sono montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie…
– Dimmi, Cola, parlano i pesci?
– Parlare proprio no, ma a modo loro si dicono tutto, come se parlassero.
– E dormono?
– Sì, dormono appoggiati agli scogli.
– Ah, sì? Non lo avrei mai pensato. Ma dimmi, Cola, ora voglio sapere cose più importanti. Dimmi su quali rocce è appoggiata la Sicilia.
– Granito, Maestà. È lava solidificata.
– Lava?
– Sì, il fuoco che esce dai vulcani e scorre a mare. Quando arriva nel mare diventa duro come il ferro.
– Bene, bene. Questo vuol dire che la Sicilia è poggiata saldamente sul mare. Il granito è roba resistente.
– Sì, è una base buona per appoggiarci un’isola.
– E Messina, sai dirmi su che poggia?
A questo punto Colapesce tacque imbarazzato.
Il Re s’innervosì:
– Ti ho domandato: Messina su che cosa poggia?
– Non posso dirlo, Maestà.
Il Re si fece sospettoso e tutti quelli che ascoltavano trattenevano il respiro.
– Non posso dirlo, perché passando davanti a Messina, mentre venivo qua, mi sono immerso più volte senza riuscire mai a trovare il fondo. Non si vedeva niente.
Un mormorio di stupore passò tra i presenti, e il Re, preoccupato e impaurito ripeté:
– Non si vedeva niente?
– Era troppo profondo, Maestà.
Ma il Re era risoluto a chiarire questa faccenda, e dunque ordinò:
– Cola, adesso devi scendere, devi andare a vedere Messina su che cosa è appoggiata.
– Non ce la faccio, Maestà, a scendere così a fondo.
– Ce la devi fare, io devo sapere su che cosa è appoggiata la città di cui sono il Re. E non farmi perdere la pazienza, Cola!
Rassegnato Cola rispose, malinconicamente:
– Va bene, Maestà, ci proverò.
– Dimmi dov’è questo punto, che là starò ad aspettarti.
– È sotto il faro, Maestà.
– Sotto il faro?… Va bene.
– Quanto tempo ci vorrà?
– Come faccio a dirlo? Non so quanto è profondo il mare lì e non so nemmeno se arriverò fin giù. Ci vorrà forse un giorno a scendere e un giorno per salire.
Il Re non stette a perder tempo:
– T’aspetto sotto il faro dopodomani. Va, va subito sotto.
– Posso riposarmi ancora un poco, Maestà?
– Ti sei riposato abbastanza, ho detto. Ora va, va! La tartaruga aveva sentito tutto questo discorso e decise di aiutare Colapesce nella sua impresa. Le tartarughe marine sono molto resistenti, con quel guscio duro che hanno, e conoscono bene le profondità del mare. Perciò Cola si aggrappò alla sua corazza e insieme cominciarono la discesa nell’abisso sotto il faro. Scesero lungo una parete di roccia ripida, a strapiombo. Incontrarono una aragosta, un calamaro e anche un piccolo squalo. E poi arrivarono, sempre sprofondando nell’abisso, là dove il mare era nero, e Cola che ormai aveva imparato, chiamò a raccolta tutti i pesci luminosi e questi lo accompagnarono sempre più giù… Ed ecco finalmente comparire nel vago chiarore che emanavano i pesci luminosi, dopo la lunga lunghissima discesa, tre spettrali colonne di granito. Cola si avvicinò a queste tre colonne, e le esaminò bene: vide che una era intatta, l’altra era lesionata, e la terza era proprio rotta, ne era restato solo un troncone. Dopo questo esame, aiutato dalla tartaruga si affrettò a risalire: e il mare da nero che era divenne blu, e poi verde, azzurro, e poi sempre più azzurro e luminoso.
Il Re aspettava Colapesce al faro. Aveva voluto restare solo, questa volta, perché quello che doveva dirgli Colapesce era un segreto di Stato. Dalla cima del faro, che era una torre saracena, guardava ansioso il mare. Finché vide emergere Colapesce che, aggrappato alla tartaruga, pareva più morto che vivo. Il Re scese precipitosamente la scala, si appollaiò sopra uno scoglio, e aspettò.
– Bravo, Cola! Ce l’hai fatta? – domandò. – Dimmi subito se ce l’hai fatta!
– Sì, Maestà!
– Ma che hai? Sei pallido come un morto.
– Sono morto di spavento e di fatica, Maestà.
– E allora? Messina su che cosa è poggiata?
– Messina è poggiata su tre colonne di granito: una sana, una lesionata e una rotta.
Il Re si portò le mani sugli occhi ed esclamò:
– O Messina Messina, un dì sarai meschina!
Era talmente disperato che nel movimento che fece la corona gli cadde dalla testa, rotolò sullo scoglio e finì in mare.
– La mia corona! – gridò. – La mia corona!
Colapesce era ancora più sconvolto del Re:
– Cosa avete fatto, Maestà!
Il Re ripeteva fuori di sé:
– Una corona che non ce n’è un’altra al mondo! E per colpa tua è finita in mare. Ora tu devi andarla a riprendere.
Colapesce allora capì che la tartaruga aveva ragione, che non c’era più da fidarsi di questo Re, così egoista e malvagio.
– Maestà, non posso più tornare in fondo al mare. Ho paura di non farcela a scendere giù una seconda volta.
– Cola! – urlò il Re. – È la corona del mio Regno! Devi andare a prenderla, te l’ordino. Non posso restare Re senza corona. Se non mi obbedisci ti faccio subito tagliare la testa.
Con un filo di voce Colapesce rispose:
– Se voi così volete, Maestà, scenderò in questo abisso. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su.
– Ti do mezz’ora di tempo per riposarti e riprender fiato.
Poi devi scendere.
E così dicendo gli voltò le spalle e andò a chiudersi nella torre del faro.
Rimasto con la tartaruga Cola l’abbracciò e pianse:
– Come avevi ragione! Meglio non aver a che fare con un Re! Questa volta il cuore mi dice che non ne uscirò vivo! La tartaruga che ne aveva viste tante nella sua lunghissima vita lo consolò:
– Non piangere, Cola, e fa come ti consiglio io. Chiedi al Re un sacchetto di lenticchie. Poi gli dici: “Se scampo tornerò su con la corona. Ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che non ce l’ho fatta, e non tornerò mai più”.
– E a che serve tutto questo? – domandò Colapesce.
– Serve – rispose la tartaruga – perché noi scenderemo sotto per un po’, poi apriremo il sacchetto e faremo salire a galla le lenticchie. Il Re crederà che tu sei morto, e noi ce ne andremo al largo, liberi, per i fatti nostri. Il mare è grande, Cola, e nessun Re ti troverà più.
Colapesce sorrise finalmente:
– Ho capito!
Passata la mezz’ora il Re ridiscese dalla torre del faro, senza corona e scarmigliato, avvolto nel suo mantello nero, sembrava un uccellaccio.
– Ti sei deciso? – disse a Colapesce. – La mezz’ora è passata.
Colapesce fece come gli aveva suggerito la tartaruga:
– Datemi un sacchetto di lenticchie, Maestà. Se ce la faccio tornerò su con la corona. Ma se vedete venire a galla le lenticchie è segno che non torno più.
– Va bene, ma ora preparati. Va, va…
E gli fece dare il sacchetto con le lenticchie.
Colapesce e la tartaruga scesero sott’acqua e nuotarono per un po’, fin dove il mare era blu. Poi Cola aprì il sacchetto con le lenticchie e le lenticchie cominciarono a salire veloci come tante bollicine d’aria verso la superficie.
Il Re quando vide salire le lenticchie pensò che Colapesce era morto. Aveva perduto la corona e il Regno, e si strappò tutti i capelli.
Ma Colapesce non era morto. Insieme alla tartaruga nuotava libero nel vasto mare, seguito da un nugolo di allegri cefalotti.
Era felice, lontano dalla terra, dagli uomini e dai Re.
A domani,
Nat