L'italiano in 100 parole,La partigiana Gae Aulenti, architetto geniale di Annarita Briganti, Madre Europa salvaci tu di Paolo Rumiz
Buongiorno,
La partigiana Gae Aulenti, architetto geniale di Annarita Briganti
24 OTTOBRE 2022 ALLE 09:15, La Repubblica
A dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta a Milano il 31 ottobre 2012, Annarita Briganti ricostruisce la storia pubblica e privata di Gae Aulenti, che s’intreccia con la Storia. Il suo nuovo saggio-documentario è “Gae Aulenti. Riflessioni e pensieri sull’Architetto Geniale” (Cairo), terzo libro di una trilogia sulle grandi donne dopo Alda Merini e Coco Chanel, che continuerà, sua sesta opera. In questo estratto, tratto dal capitolo intitolato La staffetta, l’autrice ricorda un aspetto inedito dell’italiana che, tra l’altro, ha realizzato il Musée d’Orsay, designer, scenografa, grande intellettuale: Gae Aulenti partigiana.
Viene tutto da li?: dall’essere stata, dall’essere una partigiana.
Gae Aulenti ha sempre partecipato alla vita politica, alla vita pubblica, fino alla fine, ricoprendo cariche, facendo sentire la propria voce nel dibattito, per come ha condotto la sua esistenza, per gli interventi diretti sul mondo che ci ha lasciato. Anche nella fine del suo grande amore la politica ha avuto un ruolo: quel «craxismo deleterio» che li avrebbe allontanati.
…Senza le staffette la guerra partigiana sarebbe stata inattuabile.
…Gae partigiana. Gae che ricorda: «Andavo tutti i giorni a Casabella. Assistevo alla battaglia dei galli di redazione. Avevo assunto un atteggiamento sornione. Andavo con i picchiatori al Teatro Nuovo a difendere Luchino Visconti». Gae che difende Luchino Visconti. Gae vicina al Partito comunista e al comunismo, vedendone anche i limiti. Gae che viene da genitori «dolcissimi», che esalta questa dote che lei pero? nascondeva, come molte donne sono costrette a fare. Bisogna crearsi una corazza. Non mostrare alcuna ipotetica, eventuale «debolezza». Come se esistessero le «debolezze»: fa tutto parte di noi. Difendersi dal mondo perché tutto, anche un chilo in più, un partner, un vestito, un qualcosa della tua vita sarà usato contro di te.
Gae che, come sua madre, capisce tutto, anche le cose più lontane da lei. Gae che fa sembrare tutto facile.
«Prestavo dei piccoli servizi alla Resistenza, si fidavano di me e qualche volta portavo fuori dai blocchi le missioni inglesi fingendo di andare in camporella. A Biella ero amica di due sorelle ebree che sparirono da un giorno all’altro. La coscienza civile nacque li?» ricorda l’Architetto – al maschile, come amava definirsi lei – a proposito di un periodo storico drammatico e irrisolto, mentre purtroppo l’antisemitismo non e? stato ancora sconfitto.
Le persone sparivano da un giorno all’altro. Le persone spariscono. Lei, come sempre, non si tiro? indietro, rischio? tutto, diede il suo contributo.
Interno sera. Una trattoria di Milano in cui si può ancora fumare, magari quella a Brera vicino alla sua casa-studio, dove Gae e? di casa. L’Architetto, in uno dei tanti video su di lei o che la vedono protagonista, e? seduta a tavola con un intervistatore, ovviamente uomo, che le chiede – e? uno dei pochi a sottolineare questo aspetto – del suo essere una partigiana.
Le grandi donne sopravvissute alla Seconda guerra mondiale, che racconto nei miei libri. Mi piacciono le sopravvissute.
Il giornalista chiede all’Architetto: «Come faceva a fare la staffetta, a forzare i blocchi?».
Lei: «Camminavo, correvo» e fa il gesto con le braccia della corsa. «Lo facevo» e sorride.
Il libro
Gae Aulenti. Riflessioni e pensieri sull'Architetto Geniale di Annarita Briganti
Cairo Editore, pagg. 192,euro 1
L'italiano in 100 parole, Gian Luigi Beccaria
Quante volte al giorno usiamo la parola “sì”? Quanti di noi sanno che si tratta di un termine fondamentale per la storia della nostra lingua, da quando Dante battezzò l’italiano la “lingua del sì”? E quanti conoscono la storia di “darsena”, “magazzino” e di tutti gli altri arabismi presenti nell’italiano? Anche se spesso non ce ne rendiamo conto, la lingua che usiamo ogni giorno è il frutto di un lungo percorso ricco di sorprese e di conferme. In questo libro il linguista Gian Luigi Beccaria ci guida attraverso le 100 parole – da “retorica” a “mercante”, da “umanista” a “romantico”, da “ciao” a “caffè”, da “mafioso” a “azienda” – che hanno fatto dell’italiano e degli italiani quello che sono oggi.
È un affascinante viaggio nella nostra lingua, ma anche una storia delle idee che, nel corso dei secoli, intorno ad alcune parole si sono consolidate e diffuse, diventando il “materiale mentale” degli uomini e della loro epoca. Perché, come ci ricorda Beccaria, “un insieme di parole contribuisce a sistemare il modo di pensare e percepire la realtà. È un mosaico che descrive simultaneità, incroci e convergenze, ricostruendo l’universo intellettuale di una generazione”.
GIAN LUIGI BECCARIA, linguista e critico letterario, è membro dell’Accademia della Crusca, dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia dei Lincei. Tra i suoi libri ricordiamo Tra le pieghe delle parole (Einaudi 2008), Mia lingua italiana (Einaudi 2011) e Le orme della parola (Rizzoli 2013).
Madre Europa salvaci tu di Paolo Rumiz
La cerchiamo anche in tempi in cui sbiadiscono i valori, decade l’orgoglio di appartenenza e viene meno il senso di coesione. Le ragioni le spiega lo scrittore ospite della rassegna torinese
01 OTTOBRE 2022 ALLE 15:49 3 MINUTI DI LETTURA, La Repubblica
In tanto viaggiare, non avevo mai pensato che l'Europa fosse femmina, o che, come esiste il "Mal d'Africa", potesse esistere il "mal d'Europa", un desiderio bruciante di lei. Soprattutto non avevo riflettuto sul fatto che, per capirne l'essenza, dovessi toglierle l'articolo. Dire "l'Europa" non fa sognare. Rappresenta al massimo un brandello di mappamondo o, peggio, una torre di Babele popolata di funzionari intenti a dettare regole indecifrabili. Dire "Europa" è altra cosa. Personalizza un mondo. Svela le nostre radici, innesca una narrazione, crea un legame indissolubile. Quello che si accende in noi tutte le volte che ne siamo lontani. Io amo non l'Europa, ma Europa, una donna con quel nome.
Cosa mi spinge a cercare Europa in tempi in cui sbiadiscono i valori fondanti, decadono l'orgoglio di appartenenza, la coesione, l'autonomia, tempi in cui si fa sempre più flebile la difesa dei diritti e la distanza critica dal pensiero unico del profitto? A cosa potevo aggrapparmi in un simile naufragio? Come ricuperare e narrare il nucleo segreto, l'essenza di una terra-madre ridotta a corpo inerte, balcanizzato e subalterno, schiacciato fra grandi potenze, ossessionato dalla sicurezza, sempre più diviso da reticolati, dimentico delle guerre che hanno lacerato la sua carne? Come reagire all'eclissi di un'Alleanza che oggi cammina rasente i muri e tace in un silenzio assordante quasi vergognandosi di esistere?
L'Annunciazione è avvenuta una notte, a Santa Maria di Leuca, sul tacco dello Stivale, dove Jonio e Adriatico si toccano ai piedi di un grande faro. Una chiatta piena di migranti era naufragata sugli scogli della Nuova Terra e, trovandomi già in Puglia, ero corso lì appena in tempo per vedere alla luce delle fotoelettriche un sacco bianco deposto sul molo da una motovedetta della capitaneria. Conteneva, mi dissero, il corpo di una somala incinta, una di molte donne annegate, forse scaraventate in mare dagli stessi scafisti. Accanto a quel corpo, un uomo in piedi, immobile, possente e taciturno, in lacrime come un bambino. Un palombaro, un testimone-chiave di un Mediterraneo ridotto a mattatoio. Cosa aveva visto per piangere a quel modo?
La donna senza volto cominciò a svegliarmi, notte dopo notte. Chiedeva di avere un nome, una voce, una storia. E quando una voce ti chiama nel buio, non puoi fare altro che ascoltarla. Era il gennaio 2016. Non ebbi pace finché a luglio dello stesso anno ebbi una risposta. Centinaia di profughi stavano sbarcando da una nave di soccorso a Porto Empedocle. Erano stati al largo più di un mese, respinti da tutti. La nave puzzava di vomito e cherosene. I migranti scendevano con passo malfermo da una passerella con addosso dei salvagente di color giallo. Le donne, una dozzina, quasi tutte siriane, furono separate dai maschi e fatte accomodare su uno spazio di banchina casualmente coperto da un grande telo blu. Lì si sedettero in tondo, come per condividere ritualmente la solennità del momento.
Appena realizzai che quel cerchio giallo in campo blu ricalcava la bandiera dell'Unione europea, una delle donne cominciò a cantare a bassa voce un motivo dolce, capace di riassumere il dolore del distacco dalla patria e la speranza di un mondo nuovo. Avrà avuto vent'anni; i capelli corvini tagliavano come un'ala un profilo affilato e levantino, diviso in due come una moneta. Un lato era dolce, materno. L'altro esprimeva la durezza della volontà. Un'ambivalenza che riassumeva il mistero del Femminile. Non lo avrei più dimenticato e tuttora sono certo che, se lo rivedessi, lo riconoscerei all'istante. La ragazza siriana in giallo su sfondo blu, che aveva attraversato il mare con paura, dava finalmente un'identità alla donna del sacco bianco. Una faccia, una voce. E un nome: Europa. A incarnarsi nella migrante era nientemeno che il mito fondativo della nostra terra. Giove trasformato in toro che rapisce una principessa fenicia di nome Europa e la trasporta a nuoto in Occidente, svela la nostra discendenza da una madre d'Oriente, portatrice di sangue nuovo, una capostipite venuta da un mare che non è certo l'Atlantico ma il Mediterraneo. Svela che il nostro legame con l'Asia è indissolubile e l'unico nostro vero confine sta a Ovest, sull'oceano. Dice la nostra appartenenza a un mondo pelagico dove da sempre le genti si incontrano, spazio acqueo dove sarebbe nata da democrazia, la filosofia e la tutela dei diritti. Un mondo baciato dalla sorte, portatore di una mitologia femminile.
Il mio libro in versi Canto per Europa era già in embrione senza che lo sapessi. A dargli la spinta fu, poco dopo, il referendum inglese in favore di Brexit. Un evento che spinse Piero, un amico caro, cultore di lettere antiche, navigato nocchiero e armatore di una delle vele più gloriose del Mediterraneo, a telefonarmi dal Galles, per lamentare che gli Inglesi avevano deciso di "sputare - così disse - sul corpo della loro madre", e che quello era il momento di ripetere il viaggio di Europa da Oriente a Occidente per mettere "Albione davanti all'evidenza di un mito che conteneva i valori fondanti dell'Unione".
Poco tempo dopo eravamo in mare con la sua barca a vela. La quale, zigzagando fra Asia e Occidente, tracciò come punti di sutura fra i due mondi. Fu lì che ritrovai Europa. Aveva lo stesso volto della ragazza sbarcata a Porto Empedocle, ma poteva essere una profuga qualunque. Libica, curda, bosniaca, afghana. Il mito si intrecciava con l'attualità - riscaldamento climatico, guerre, emigrazioni e turismo di massa - e ne traeva spunto per costruire un racconto in bilico fra il presente e i millenni. Fu allora che gli dei presero a vorticare intorno alle nostre vele in un racconto che, miglio dopo miglio, si fece sempre più pagano e carico di metafore, in un mare segnato da bellezza e tragedia, divinità e naufragi.
Sfumature di Zanichelli
Canto per Europa, Paolo Rumiz
Il mare era in principio
In una notte nitida di ottobre il comandante Lebris dal veliero Surprise battente bandiera francese vide, al largo del golfo di Palermo, una vela color rosso mattone tagliare il mare in due come una lama, rotta a nord-est, obliqua, di bolina.
Puntò il binocolo. Sembrava vuota ma con superba inerzia scivolava sulle onde di zinco in controluce, con vento di Grecale a venti nodi e le ali di neve dei gabbiani che incoronavano l’aria turchina.
Aprendo l’acqua, la barca tracciava un baffo bianco, rotondo, perfetto, come spuma di birra sui mustacchi di un granatiere prussiano a riposo.
Era una vela del Mare del Nord, legno massiccio, più vecchio di un secolo, occhi dipinti a prua come le navi dei Greci a Salamina. Un armo aurico di grande velatura e strane corna fissate alla cervice del bompresso.
Sulla crocetta, una blusa di donna di un nero piratesco, sbrindellata, e a poppa una bandiera con le stelle.
Incuriosito il Francese aggiustò la sua rotta, con andatura al lasco, tenendo testa al peso dei frangenti, per incrociare la fatamorgana.
Sfiorò la collisione, ma riuscì per un istante a vedere al timone un uomo solo, semi-addormentato, passargli accanto a gran velocità, intabarrato in un plaid, naso adunco e capelli incrostati di salsedine.
Imperterrito andava lineare, sembrava fosse la barca a portarlo.
“Né latitudine né longitudine era il suo navigare, ma un abisso,” così disse il francese alle altre barche, “una discesa per antri sommersi.”
Rimpicciolì in un attimo la vela, rotta su Napoli, finché scomparve avvolta in un’aureola di spruzzaglia.
Da allora molti altri la avvistarono sempre per pochi attimi, nel vento: c’è chi la vide a Creta e chi a Maiorca, chi nello Jonio o al largo di Marsiglia.
Mai apparve in un porto. Il suo pilota buttava l’ancora in baie nascoste, lontano da dogane e da scartoffie.
Dove facesse cambusa è un mistero: fu visto che pescava in mare aperto e raccoglieva erbe sulle rive di isole remote, nottetempo.
Riusciva a navigare anche nel sonno: per impedire alla barca di orzare, annodava la barra a modo suo a una maniglia accanto alla falchetta.
Per la sua poppa rotonda, filante la vela centenaria non lasciava dietro di sé alcuna traccia di schiume.
Di notte si vedeva, inconfondibile solamente una scia di bollicine color di Luna, una smagliatura sinuosa che poteva assomigliare a una lucente bava di lumaca o traccia del passaggio di un delfino.
Le altre barche, incrociandola, si dice che avessero gridato il loro nome come saluto alla Vecchia signora, ma quella se ne andava via in silenzio seguendo mappe arcane d’altri tempi.
La leggenda si sparse in un baleno di quell’uomo errabondo e clandestino.
L’ultima volta pare che lo videro con la sua barca cornuta attraccata a un molo malandato in quel di Cnido, città fantasma in cima a un promontorio lacerato dal trillo dei rondoni, dove Venere celebra da secoli lo sposalizio fra Asia ed Europa.
Ballava, si dice, abbracciato a una donna che non c’era, tessendo i passi morbidi di una milonga, o forse un tango vals.
Conoscevo quell’uomo. Ho navigato con lui fino all’estremo, fino al tempo in cui scelse di starsene da solo.
Ricordo molto bene quando sciolse gli ormeggi in piena notte a Cefalonia.
Io piansi salutandolo, ma lui sorrise mentre il vento gli scriveva parole tra le virgole dei riccioli.
Oh Petros, Ammiraglio delle anime ogni tuo gesto era un inno di lode.
Quando prendevi tranquillo il timone, triremi di Pelasgi e di Liburni ti passavano accanto e le Nereidi cantavano per te dolci canzoni.
A noi lasciasti soltanto il ricordo di un viaggio straordinario senza tempo.
Borea in quei giorni mi soffiò nel cuore come mai prima in tutta la mia vita e come non soffiò mai più da allora.
Quattro eravamo, tutti di frontiera, quattro conquistatori dell’inutile.
We happy few, noi pochi, noi felici, un’amicizia nata di bolina.
Con il greco, un francese e un mezzo turco; poi c’ero io, il più bianco di pelo di quella strana ciurma incatenata ai ferri della stessa barca antica.
Il mare era in principio. Solo dopo fu creata la vela per solcarlo.
Moya, il suo nome era Moya. L’avevano varata in Inghilterra sul Mar d’Irlanda ormai da più di un secolo.
Ruggivano le Orcadi nel giorno in cui Petros la vide da lontano tagliare nella bruma l’onda grigia.
La fece sua e le diede un tocco greco dipingendo sul muso grandi occhi contro il Matiasma e i mostri del profondo.
Calda, accogliente, una culla ideale, col nome in bronzo al vertice del boma, il suo guscio materno lo aiutava a fare il punto nave sulla vita, lo trasferiva nel tempo del mito.
Solo manovre a mano, zero winch, cucce spartane, niente battagliola, niente frigo, soltanto la cambusa il triplo delle drizze e delle scotte di una barca normale. Stando a bordo il tempo evaporava, si spostava leggero nella quarta dimensione là dove tutto sta scritto da secoli.
Alla Luna
E adesso benedici questo canto
Luna d’Oriente, Luna cartapesta
sirena adescatrice d’angiporto
illumina ti prego il mio racconto
pensato in un momento di burrasca
in mezzo a un arcipelago di insonnie.
Rischiara il viaggio verso il Finis Terrae
sul grande promontorio sull’oceano
là dove il Sole e le stelle tramontano
aiutami a evocare le tempeste
lo scintillio nuziale delle notti
i vulcani fumanti, i faraglioni
le nevi del Parnaso e le mie Cicladi
materia cosmica fattasi isola
armento di giovenche transumanti
sotto l’occhio del Tauro che galoppa.
Questa è una storia d’argento e zaffiro
profumata di donna e gelsomino
un’avventura che voglio narrare
anche per liberarmi del rimpianto
per cancellare le stelle di Grecia
e l’ossessione di quella bellezza
che ancora dopo anni mi tormenta.
Pavet haec litusque ablata relictum respicit et dextra cornum tenet, altera dorso imposita est; tremulae sinuantur flamine vestes.
Ovidio, Le metamorfosi, libro II, cap. XIX
Grazie per aver letto, a presto.
Nat