La curiosità Mario Calabresi, Un uomo Oriana Fallaci, Tempo di uccidere #2 Ennio Flaiano, Il libro del Cortegiano Baldassar Castiglione, carnera, baracone
Buongiorno e buon dicembre!
Ecco la mia selezione per oggi:
Pensiero del giorno: Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa.
Italo Calvino (1923-1985), Se una notte d’inverno un viaggiatore, I.
Definizio d’autore: La curiosità di Mario Calabresi
Parole per ricordare: carnera - fenomeno da baraccone
Tempo di uccidere #2, Ennio Flaiano
2
Camminavo forse da un’ora quando vidi il camaleonte. Brava bestiola. Stava attraversando il sentiero con la cautela di un ladro che cammina sul cornicione dell’albergo preferito. Calmo, onestamente spaventato da quell’Africa piena di insidie, metteva una zampetta dietro l’altra con delicatezza. La vista delle mie scarpe non poteva turbarlo più di quanto già fosse e mettergli altri dubbi sulla necessità di proseguire. Dopo averle scrutate a lungo, incerto se montarvi sopra o no, volse le terga. Si affidava al mio senso d’onore. Non avrei osato colpirlo, non l’avrei distolto dalla sua accurata ricerca di cibo.
«Una sigaretta?» Gli infilai la sigaretta accesa in bocca. Se ne andò fumando, da buon diplomatico, sempre più spaventato di vivere, pronto a gettare la cicca per una mosca, pronto a tutto, ma talmente pigro anche lui!
Guardai l’orologio, che segnava le dieci. Camminavo, dunque, da un’ora e venti minuti. Il sentiero era stretto, talvolta si sdoppiava per riunirsi subito dopo: abbastanza agevole, troppo agevole, con qualche breve salita e lunghi tratti in piano. Fu questo particolare che mi fece pensare d’aver sbagliato. E da mezz’ora non incontravo resti di muli marciti al sole. Ma ciò era spiegabile, i muli non muoiono sulle pietre miliari, non si distribuiscono equamente lungo un percorso, anche se avvezzi dalla disciplina militare. Ne trovate tre in una buca in misterioso colloquio e poi fate dieci chilometri senza incontrarne nessuno. Mi pareva, piuttosto, di non essermi elevato di molto sul livello del fiume. Forse un centinaio di metri. L’altopiano si ergeva ancora davanti a me, più nitido, benché spesso la boscaglia me ne impedisse la vista.
Proseguii: sapevo che le scorciatoie si accettano, non si discutono. Improvvisamente sarei sbucato sul ciglio dell’altipiano, vicino a qualche fumante cucina di reparto, forse tra un parcheggio di autocarri: così sono le scorciatoie.
Mi tolsi dunque di mente l’idea che avessi sbagliato e proseguii. Non ero stanco, anzi l’essermi tenuto digiuno mi rendeva le gambe sciolte e il corpo leggero; e lo zaino non conteneva molta roba. Mi infastidiva, invece, la grossa rivoltella sul fianco, e fui tentato di metterla nello zaino; ma ero solo e per di più in una boscaglia sconosciuta, tra insidie che non potevo e non volevo immaginare per non turbarmi quella passeggiata verso quattro giorni di libertà. E si aggiunga la noia di quel dente, che a tratti si faceva sentire, sordo, lontano, ma pronto a farmi urlare daccapo. Mi restavano tre compresse.
E se invece del camaleonte, una iena mattutina, stanca di cercar cadaveri e disposta a un compromesso coi suoi gusti? Più della iena vi fa orrore il suo sterco, che un indigeno vi addita sul sentiero, ridendo per lo schifo.
No, niente iene. Girano solo di notte ed è peccato che non vadano parlando di letteratura, come gli amici lasciati lassù, altrimenti saprei come occupare certe insonnie.
Sì, avevo sbagliato, avevo sbagliato in tutti i sensi. Primo: nel prendere una scorciatoia. Secondo: nel prendere quella. Infatti, non traversava mai la strada, come avevo ingenuamente supposto. Così non avrei potuto fermare qualche autocarro, quell’autocarro, per esempio, di cui adesso mi arrivava indistinto il rumore. Era almeno a tre chilometri e andava in salita.
Seguii il rumore, preso da un’inquietudine che non sapevo spiegarmi; ma, poiché il sentiero piegava verso il nord, cioè verso l’altopiano, ripresi il cammino: avevo sbagliato, sì, ma non bisognava farne un dramma. In due ore sarei arrivato, poiché ora il sentiero puntava verso il nord e si faceva aspro.
Traversai un torrentaccio secco (c’erano poche pozze d’acqua quasi pulita e un ciuffo di alberi verdi, sempre gli stessi alberi abbastanza maledetti, anche se verdi), e ripresi il sentiero, che s’apriva tra una fitta boscaglia cosparsa di termitai. Qualche nero uccello si staccava al mio passaggio e andava a posarsi più avanti, gridando. Provavo la sensazione di essere seguito e osservato, ma forse era soltanto la stanchezza e il dente, quel tenace dente molare. Cominciai a fischiettare e pensieri piacevoli m’occuparono ben presto la mente: la vacanza, soprattutto. Poi, la lettera che mi bruciava in tasca e potevo rileggere anche subito, la cara lettera che avevo portato con me. Cercai di capire alcune parole poco chiare, scritte in fretta e alle quali attribuivo un valore eccessivo. Forse quelle poche parole avrebbero risposto a tutte le mie ansiose domande, e fu la solita delusione quando le decifrai: si trattava di parole senza particolare significato, di quelle parole che sono destinate ad essere scritte in fretta, anche da una donna molto calma. «Peccato» dissi.
Ora la boscaglia si complicava di alti cespugli che impedivano la vista; e questo fatto mi indusse ancora una volta a fermarmi e a considerare la situazione. Ero nella valle di un affluente del fiume: m’ero allontanato, dunque, sia dal ponte che dall’altopiano, perché il ciglio dell’altopiano rientrava ora sino a confondersi coi monti lontani. Rientrava scavato dall’affluente, che nasceva a nord. Vedevo il piccolo corso d’acqua sotto di me, quasi nascosto dalle piante.
Una pace antica, in quel luogo. Ogni cosa lasciata come il primo giorno, come il giorno della grande inaugurazione. Non doveva essere difficile arrivare giù al fiumicello, ma quali ragioni avrebbero mai potuto spingervi gli uomini? Non la necessità di un traghetto, non la pesca, che qui non si pratica, e nemmeno il bisogno di dissetarsi, poiché l’acqua abbonda anche sull’altopiano e nessuno vivrebbe in questa zona calda. Il piacere di una escursione? Gli indigeni sono piuttosto contrari alle comitive. Se fossi disceso sino a quelle rive avrei trovato tracce di animali e nient’altro. Non c’era forse nemmeno un sentiero e avrei dovuto inventarlo. Ma a che pro? Eppure m’era balenata l’idea di scendervi, tanto l’amore per le imprese inutili è radicato in me. Ch’io sia soltanto un perditempo? Comincio a sospettarlo.
Una leggera brezza increspava in un punto la superficie tranquilla del fiume. Guardando meglio decisi che si trattava di un tronco marcito. Ma il tronco ebbe un guizzo e scomparve: era dunque un coccodrillo, o forse solo un iguana. Da quell’altezza non potevo giudicare le dimensioni. “Forse aspetta me” pensai, cercando di ridere. Ma era difficile che ormai potessi ridere, e quindi seguitai per la boscaglia.
Non c’era più sentiero.
Cominciai a esserne preoccupato, sicché in fretta rifeci un chilometro, o forse due, verso la direzione del ponte, cercando però di salire. Troppo tardi mi ricordai della precauzione che avrei dovuto prendere, di lasciare ogni tanto pezzi di carta sulle piante. Eppure, quante volte avevamo riso di un nostro ufficiale che si addentrava nelle boscaglie sempre col suo rotolo di carta, lasciandone un pezzo ogni cinquanta passi e numerandoli persino. Ora ritrovare la strada giusta significava perdere molto tempo. Avevo camminato in fretta e, se avessi raggiunto almeno il primo torrente, avrei dovuto camminare altre due ore, o poco meno, per ritrovarmi al ponte; e là essere guardato ironicamente dagli operai. E l’operaio biondo m’avrebbe chiesto: «Ha dimenticato qualcosa?». Sì, non avrebbe detto altro.
Tornare indietro: era certo una buona risoluzione, se avessi trovato il torrente. Ma era chiaro che il torrente nasceva proprio nel punto in cui l’avevo attraversato. Se non ritrovavo quel punto, inutile parlare di torrente.
C’era un’altra soluzione: arrampicarsi in linea retta verso l’altopiano. L’altopiano non era un miraggio, ma stava là e, dopo quattro o cinquecento metri di dislivello, l’avrei raggiunto. Affrontai, dunque, la prima gibbosità e mi trovai su un altro spiazzo simile a quello che avevo lasciato, gli stessi alberi, la stessa piatta solitudine. Ecco, una terrazza alla volta e sarei arrivato, ero forse più vicino di quanto non osassi sperare. «Coraggio» dissi ad alta voce. E, benché fossi irritato di essermi messo in quel pasticcio da gitante, decisi di uscirne e di raggiungere il ciglio dell’altopiano, almeno prima che il sole fosse disceso dietro l’altro ciglio. Perciò mi rinfrancai e ripresi a salire: ma, giunto alla terza terrazza, mi vidi perduto.
Davanti a me s’ergeva una parete di basalto. A sinistra la terrazza strapiombava. Potevo seguire il sentiero di destra, ma perché aggiungere codicilli ad un’impresa già tanto sfortunata? Inutile allontanarsi di più dal ponte. A sinistra avrei potuto anche tentare, ma era altrettanto inutile, poiché il sentiero non aggirava la parete e si perdeva in una forra. Esplorare una via d’uscita su quel basalto bollente, a rischio di restare sotto il sole? «Via, deciditi, torna indietro» dissi.
Ora sentivo, ma non volevo illudermi, sentivo il fetore di una carogna, il fetore di un mulo. Forse ero salvo. Cercai con gli occhi e la mano andò rapida alla rivoltella, mentre il cuore mi dava un tuffo. Seduto a terra, un abissino mi guardava: s’era appoggiato ad un macigno, si sorreggeva la testa scarna con una mano e guardava proprio me, fisso, senza muoversi, un occhio aperto e uno socchiuso.
La parete rimandò il mio grido e l’abissino non si mosse. Solo un volo di corvi, un lugubre fuoco d’artificio, si levò alle sue spalle. Subito i corvi tornarono.
Mi allontanai in fretta e un altro cadavere apparve. Era disteso, la mano immobile indicava il cielo. Dietro di lui, un altro guerriero, steso bocconi, la testa poggiata sugli avambracci, in una calma suprema: forse ascoltava ancora le parole dell’altro che gli indicava il cielo. Giacevano con i resti del loro accampamento, latte da petrolio vuote, e la cenere di un fuoco tra due pietre. E, sopra le pietre, una pentola dove qualcosa aveva smesso di cuocere da molto tempo.
Stavolta lo scoiattolo che si fermò a guardarmi, e con simpatia, non mi fece ridere. Ripetevo a me stesso che se avessi perduto la calma, sarei rimasto là. Se avessi cominciato a correre (come ne avevo davvero voglia), se per vincere la paura mi fossi messo a urlare che avrei ottenuto? Dovevo pensarci con calma, riposare un poco all’ombra dell’albero meno sgradevole. Ma questi erano rottami di buoni propositi che già non riuscivo più a controllare. E l’orologio s’era fermato.
E questo rumore? Tendevo l’orecchio per sentire il confortante rumore di un camion, ma ormai ero troppo lontano, troppo lontano!
Spiegai la carta topografica, cercando il fiume e il villaggio sull’altipiano che sarebbe stata la mia prima tappa. Vari sentieri si dipartivano dal fiume, trovai il traghetto, ossia la località del ponte. Tutto era estremamente sommario, il fiumicello non figurava e i nomi dei sentieri dicevano quale romanticismo aveva ispirato il topografo. Incapace di licenziare una tavola con tanti vuoti, vi aveva aggiunto a capriccio brevi frasi: Residenza eventuale di pastori, oppure: Qui si incontrano molti struzzi. Soltanto allora mi accorsi che quella carta era vecchissima, stampata ormai da mezzo secolo.
Ripresi un po’ di coraggio, ridendo, e i nervi mi si distesero. Ma debbo aggiungere che il suono della mia voce, quasi estranea in quel luogo, troncò ben presto quella futile allegria, ripiombandomi nella più nera inquietudine. “Di qui non esco” pensavo. L’idea di trascorrere la notte accanto a quei cadaveri, e di rivedere all’alba la mano in atto di indicarmi il cielo, mi parve insopportabile. Ancora guardai la carta: c’era un sentiero, forse proprio quello che avevo abbandonato prima, o la scorciatoia che non avevo saputo seguire. Si chiamava Harghez.
Ripresi a camminare: rifeci le due terrazze, infilai daccapo la boscaglia. Dopo un’ora, sfinito, mi sedetti vicino a un termitaio.
Un uomo, Oriana Fallaci
PROLOGO
Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l’implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene era illusione. Alcuni tentavano, e si chiudevano nelle case, nei negozi, negli uffici, ovunque sembrasse di trovare un riparo, non udire almeno il ruggito, ma filtrando attraverso le porte, le finestre, i muri, esso gli giungeva ugualmente agli orecchi sicché dopo un poco finivano con l’arrendersi al suo sortilegio. Col pretesto di guardare uscivano, andavano incontro a un tentacolo e ci cadevano dentro, diventavano anche loro un pugno chiuso, un volto distorto, una bocca contratta. Zi, zi, zi! E la piovra cresceva, si spandeva in sussulti, a ciascun sussulto altri mille, altri diecimila, altri centomila. Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. Non venivano soltanto dalla città, da Atene. Venivano anche da lontano, dalle campagne dell’Attica e dell’Epiro, dalle isole dell’Egeo, dai villaggi del Peloponneso, della Macedonia, della Tessaglia: coi treni, coi battelli, con gli autobus, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio prima che la piovra li inghiottisse, contadini e pescatori con l’abito della domenica, operai con la tuta, donne coi bambini, studenti. Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto. Dirigendosi verso la piovra portavano il tuo ritratto, cartelli di minacce e di sfida, bandiere, ghirlande di alloro, corone a forma di A, di P, di Z, A per Alekos, P per Panagulis, Z per zi, zi, zi. Quintali di gardenie, garofani, rose. E faceva un caldo atroce quel mercoledì 5 maggio 1976, il puzzo dei petali cotti appestava, mi toglieva il respiro quanto la certezza che tutto ciò non sarebbe durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento, il dolore si sarebbe dissolto nell’indifferenza, la rabbia nell’ubbidienza, e le acque si sarebbero placate morbide molli obliose sul gorgo della tua nave affondata: il Potere avrebbe vinto ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, cade sempre per risorgere dalle sue ceneri, magari credi di averlo abbattuto con una rivoluzione o un macello che chiamano rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o subisce o si adegua. Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e beffardo?
Impietrita dinanzi alla bara col coperchio di cristallo che esibiva la statua di marmo, il tuo corpo, gli occhi fissi al sorriso amaro e beffardo che ti increspava le labbra, aspettavo il momento in cui la piovra sarebbe irrotta nella cattedrale per rovesciarti addosso il suo amore tardivo, e un terrore mi svuotava insieme allo strazio. I portali erano stati sprangati, puntellati con sbarre di ferro, ma colpi irosi li scuotevano selvaggiamente e da invisibili brecce i tentacoli si stavano già insinuando. Si avvinghiavano alle colonne delle arcate, gocciolavano dalle balaustre del gineceo, si aggrappavano alle grate dell’iconostasi; intorno al catafalco s’era formato un cratere che di minuto in minuto diventava più angusto: per arginare la spinta che mi premeva ai fianchi, alla schiena, dovevo appoggiarmi al coperchio di cristallo. Questo era molto angoscioso perché temevo di romperlo, caderti sopra e sentire di nuovo il freddo che mi aveva morso le mani quando all’obitorio ci eravamo scambiati gli anelli, al tuo dito quello che avevi messo al mio dito e al mio dito quello che avevo messo al tuo dito, senza leggi né contratti, un giorno di gioia, ormai tre anni fa, ma non esisteva altro appiglio lì dentro: anche il cordone che all’inizio separava dal catafalco era stato succhiato via dalle ondate dei mitomani, dei curiosi, degli avvoltoi smaniosi di sistemarsi in prima fila per mettersi in mostra, recitare un ruolo nella commedia. I servi del Potere, anzitutto, i rappresentanti del perbenismo culturale e parlamentare, giunti facilmente al cratere perché la piovra si scosta sempre quando essi scendono dalle limousine, prego-eccellenza-s’accomodi. E guardali mentre se ne stanno compunti coi loro doppiopetti grigi, le loro camicie immacolate, le loro unghie curate, la loro vomitevole rispettabilità. Poi i bugiardi che raccontano di opporsi al Potere, i demagoghi, i mestieranti della politica lercia cioè i leader dei partiti con la poltroncina, giunti a gomitate non perché la piovra si rifiutasse di lasciarli passare ma perché li voleva abbracciare. E guardali mentre esibiscono la loro aria afflitta, si accertano di sotto le ciglia che i fotografi siano pronti a scattare, si chinano a deporre sulla bara le loro leccate di Giuda, appannare il cristallo con sbavature di lumaca. Poi coloro che chiamavi rivoluzionari del cazzo, futuri seguaci dei fanatici, degli assassini che sparano revolverate in nome del proletariato e della classe operaia aggiungendo abusi agli abusi, infamie alle infamie, potere essi stessi. E guardali mentre alzano il pugno, gli ipocriti, con le loro barbette di falsi sovversivi, la loro grinta borghese di burocrati a venire, padroni a venire. Infine i preti, sintesi d’ogni potere presente e passato e futuro, di ogni prepotenza, di ogni dittatura. E guardali mentre si pavoneggiano nelle loro tonache oscure, coi loro simboli insensati, i loro turiboli d’incenso che annebbia gli occhi e la mente. In mezzo ad essi il Gran Sacerdote, il patriarca della chiesa ortodossa che ammantato di seta viola, grondante di ori e di collane, di croci preziose, zaffiri rubini smeraldi, salmodiava «Eonìa imì tu esù. Eterna sia la memoria di te», però nessuno lo udiva perché i colpi irosi ai portali si mischiavano ora agli schianti delle vetrate rotte, ai cigolii delle serrature che non reggevano all’urto, agli schiamazzi di chi protestava, al cupo frastuono della piazza dove il ruggito s’era fatto boato e, incollata alle pareti della cattedrale, la piovra reclamava impaziente che ti portassero fuori.
D’un tratto esplose un tonfo spaventoso, il portale di centro cedette e la piovra traboccò all’interno schiumando, rotolando i suoi getti di lava. Si levarono urla di paura, invocazioni di aiuto, e il cratere si strinse in un gorgo che mi scaraventò sulla bara per seppellirmi con un peso assurdo, perdermi in un buio nel quale si distingueva appena la sagoma del tuo visino pallido, delle tue braccia incrociate sul petto, e il luccichio dell’anello. Sotto di me il catafalco oscillava, il coperchio di cristallo scricchiolava: ancora un po’ e si sarebbe frantumato come temevo. «Indietro, animali, volete mangiarlo?» gridò qualcuno. E poi: «Al furgone, presto, al furgone!» Il peso assurdo si alleggerì, da una crepa filtrò uno spiraglio di luce, sei volontari si tuffarono nel gorgo e sollevarono la bara per metterla in salvo, condurla via passando da un’uscita laterale, raggiungere il furgone intrappolato dinanzi alla scalinata. Ma la bestia era ormai incontrollabile e a scorgere quel cadavere esposto, visibilissimo al di là del fragile schermo trasparente, impazzì. Quasi che ruggire non le bastasse più e ora volesse mangiarti, si inarcò tutta, piombò sui portatori che strizzati nella sua morsa non riuscivano ad andare né avanti né indietro e barcollavano, sdrucciolavano, si raccomandavano: «Passaggio, per favore, passaggio!» Sulle loro spalle la bara saliva, scendeva, beccheggiava come una zattera squassata dal mare in tempesta, sbatacchiandoti, a momenti rovesciandoti, sicché invano io cercavo spazio coi pugni, coi calci, e sconvolta all’idea che i sei perdessero l’equilibrio, ti abbandonassero alla follia famelica, gridavo con disperazione: «Attento, Alekos, attento!» S’era formata anche una corrente che ci trascinava in senso contrario al furgone, sicché invece di avvicinarsi esso si allontanava, si allontanava. Passarono secoli prima che la bara vi approdasse, buttata di sghimbescio per non perdere tempo, e si potesse serrar lo sportello, opporre una barriera agli artigli che volevano riaprirlo, questo ingaggiando una lotta furibonda coi piedi che calpestavano, le unghie che graffiavano; passò un’eternità prima che strisciando sulla fiancata del furgone, centimetro dopo centimetro, riuscissi a sedermi accanto all’autista paralizzato dal panico, dal sospetto che ciò fosse soltanto il principio. Perché ora bisognava arrivare al cimitero.
Quel viaggio interminabile, con la bara buttata a sghimbescio e il tuo corpo messo in mostra come un oggetto vetrina, barbaramente, quasi un invito provocatorio e puttanesco: guardare-ma-non-toccare. Quell’incubo senza fine, nel furgone che imprigionato dalla lava non procedeva e, se conquistava un metro, subito lo riperdeva. Avremmo impiegato tre ore a percorrere un tragitto che in condizioni normali richiedeva dieci minuti: via Mitropoleos, via Othonos, via Amalia, via Diakou, via Anapafseos. I poliziotti che avrebbero dovuto scortare il corteo progettato s’erano dispersi subito nel carnaio, feriti spesso o malmenati; i giovanotti incaricati di provvedere al servizio d’ordine erano stati spazzati via subito, di molte decine non restavano che cinque o sei naufraghi coperti di lividi e tesi a far scudo ai finestrini in frantumi. Lo si capisce anche dalle fotografie prese dall’alto e nelle quali il furgone è una macchiolina indistinta che affoga nel vortice di una massa compatta, l’occhio del ciclone, la testa della piovra. In nessun modo si poteva scollarsi da lei: aderiva a tal punto che non si riusciva più a stabilire in quale strada fossimo, a quale distanza dal cimitero. E, quasi ciò non bastasse, c’era la pioggia dei fiori che scivolando sul parabrezza calavano una cortina di tenebre, un buio simile al buio che m’aveva sepolto nella cattedrale quando ero stata scaraventata sul catafalco. A volte la cortina si rarefaceva, regalandomi un po’ di luce, e allora vedevo cose che mi smarrivano in interrogativi cui non sapevo dare risposta: possibile che si fossero svegliati di colpo, spontaneamente, che non si comportassero più come gregge che va dove vuole chi comanda e chi promette e chi spaventa? E se fossero stati mandati, di nuovo, intruppati, di nuovo, per il vantaggio di qualche sciacallo che voleva sfruttar la tua morte? Però vedevo anche cose che cancellavano il dubbio e mi scaldavano il cuore. Grappoli di persone che ciondolavano dai lampioni e dagli alberi, che trabordavano dalle finestre e dai davanzali, che si allineavano sui tetti, ai bordi delle grondaie, accovacciati come gli uccelli. Una donna che piangeva, e piangendo mi supplicava: «Non piangere!» Un’altra che si disperava, e disperandosi mi strillava: «Coraggio!» Un giovanotto con la camicia stracciata che facendosi largo nel formicaio mi porgeva un tuo quaderno del ginnasio, certo un cimelio prezioso per lui, e diceva: «Lo dò a te!» Una vecchia che sventolava il fazzoletto e sventolandolo singhiozzava: «Addio bambino mio, addio!» Due contadini con la barba bianca e il cappello nero che inginocchiati sull’asfalto, davanti al furgone, levavano un’icona d’argento e invocavano: «Prega per noi, prega per noi!» Il furgone stava per investirli, la gente li insultava, largo-imbecilli-largo, e loro restavano lì sull’asfalto a levare l’icona d’argento.
Durò finché una voce sussurrò ci-siamo e intorno a noi si aprì una piccola gora di spazio, l’autista fermò, qualcuno tolse la bara che issata sulle spalle dei portatori prese ad incedere lentissimamente lungo un corridoio inatteso, un silenzio di ghiaccio. All’improvviso la piovra non ruggiva più, non sussultava più, non premeva più. Eppure era lì. Con una manovra a tenaglia alcuni dei suoi tentacoli avevano preceduto il furgone, a decine di migliaia brulicavano nel cimitero ed intorno: ma zitti. Dentro coprivano ogni lapide, ogni cippo, colmavano ogni aiola, ogni viottolo, si aggrovigliavano a ogni cipresso, a ogni monumento: ma zitti. E in quel silenzio di ghiaccio, lungo quel corridoio che si apriva muto per lasciarci passare, muto si rimarginava dietro di noi, camminavano: diretti alla fossa che non si vedeva, e d’un tratto si vide. Stretta, fonda, un pozzo che si spalancava sotto le mie scarpe. Barcollai. Qualcuno mi riprese, mi sollevò, mi posò sul muricciolo della tomba attigua, la sepoltura ebbe inizio. Ma sui bordi del pozzo la piovra aveva rizzato un baluardo di corpi e, per calarti come dovevi esser calato, la testa dove andava la croce e i piedi contro il vialetto, bisognava girare la bara. Il baluardo era però irremovibile, duro quanto il cemento, invano i necrofori si raccomandavano indietro-spostatevi-indietro, e così ti calarono nel modo in cui stavi: la testa contro il vialetto e i piedi dove avrebbero messo la croce. Unico morto, ch’io sappia, con la croce sui piedi. Poi, quando fosti in fondo al pozzo, da chissà quale fessura sbucò il Gran Sacerdote col suo manto di seta viola e i suoi ori, le sue collane di zaffiri, smeraldi, rubini. Pomposo, ieratico, levò la mazza pastorale per concederti la divina benedizione e subito ruzzolò a capofitto nel pozzo schiantando il coperchio di cristallo, piombandoti sul petto. Qui rimase qualche secondo, paonazzo di vergogna, grottesco, a recuperare i suoi paramenti, annaspare in cerca di un appiglio per risalire, quindi lo ripescarono e offeso scomparve dimenticando di concederti la divina benedizione. Su di te caddero le prime manciate di terra. Caddero con tonfi sordi, soffocati, tuttavia la piovra li udì. E si scosse in un brivido secco, quasi una scarica elettrica, il silenzio si infranse squarciandosi in un tumulto apocalittico. E chi urlava non-è-morto, Alekos-non-è-morto, chi gridava parole che non distinguevo ma dopo le distinsi e una era il mio nome, una l’ordine scrivi-raccontalo-scrivi, e mentre le zolle cadevano ora a palate, martellate sull’anima, a poco a poco coprendo la statua di marmo, il sorriso amaro e beffardo, mentre le bandiere ondeggiavano in fiotti di inutile rosso, il ruggito riprese: incessante, assordante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna zi, zi, zi. Vive, vive, vive.
Lo sopportai finché il pozzo fu colmo e divenne una piramide di ghirlande appassite, di petali doppiamente asfissianti, poi scappai. Basta con le menzogne, le kermesse organizzate o spontanee, gli amori temporanei e tardivi, i dolori e le rabbie abbaiate per un giorno e basta. Ma più scappavo, più lo rifiutavo, più il maledetto ruggito mi inseguiva con l’eco del ricordo, del dubbio, quindi della speranza, consolandomi e perseguitandomi come il tic-tac di un orologio senza lancette. Vive, vive. Vive, vive. Vive, vive. Anche dopo che la piovra t’aveva dimenticato tornando ad essere gregge che va dove vuole chi comanda e chi promette e chi spaventa, anche dopo che la tua sconfitta s’era cristallizzata nel perpetuo trionfo di chi comanda, di chi promette, di chi spaventa, esso continuava: fantasma attaccato alle pareti del mio cervello, annidato tra le pieghe della mia coscienza, irresistibile perfino se gli opponevo la logica o il buon senso o il cinismo. Sicché, a un certo punto, cominciai a dirmi che forse era vero. E, se non era vero, bisognava fare qualcosa perché sembrasse vero o diventasse vero.
* * *
Fu così che viaggiando per sentieri ora limpidi e ora foschi di nebbia, ora aperti al passaggio e ora ostruiti da rovi e liane, le due facce della vita senza le quali non esisterebbe la vita, ricalcando piste a me note perché le avevamo tracciate insieme o quasi ignote perché le conoscevo esclusivamente attraverso gli episodi che mi avevi narrato, andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principii assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria.
CAPITOLO PRIMO
La notte avevi fatto quel sogno. Un gabbiano volava nell’alba ed era un gabbiano bellissimo, con le penne d’argento. Volava solo e deciso sulla città che dormiva, e sembrava che il cielo gli appartenesse quanto l’idea della vita. D’un tratto aveva virato in discesa, per tuffarsi a picco nel mare, aveva bucato il mare sollevando una fontana di luce, e la città s’era svegliata, piena di gioia perché da molto tempo non vedeva una luce. Nello stesso momento le colline s’erano accese di fuochi, dalle finestre spalancate la gente aveva gridato la buona notizia, a migliaia erano scesi nelle piazze a far festa, inneggiare alla libertà ritrovata: «Il gabbiano! Ha vinto il gabbiano!». Ma tu lo sapevi che sbagliavano tutti, che il gabbiano aveva perduto. Dopo il tuffo miriadi di pesci lo avevano aggredito per morderlo agli occhi, strappargli le ali, era esplosa una lotta tremenda che escludeva ogni via di salvezza. Invano egli si difendeva con abilità e con coraggio, beccando all’impazzata, rovesciandosi in salti che spruzzavano immensi ventagli di spuma e spingevano ondate fino agli scogli: i pesci eran troppi, e lui troppo solo. Le ali lacerate, il corpo inciso di tagli, la testa straziata, perdeva sempre più sangue, lottava sempre più debolmente, e alla fine, con un grido di dolore, s’era inabissato insieme alla luce. Sulle colline i fuochi s’erano spenti, la città era tornata a dormire, nel buio, come se nulla fosse successo.
Sudavi a pensarci: sognare i pesci era sempre stato per te un presagio di cattivo augurio, anche la notte del golpe avevi sognato i pesci. Gli squali. Sudavi e capivi che la sconfitta del gabbiano era un avvertimento, forse avresti dovuto rinviare di una settimana, di un giorno, controllare di nuovo le mine sotto il ponticello, accertarti di non aver commesso errori. Ma la sera avanti era incominciata la conta a rovescio, alle otto del mattino sarebbero scoppiate anche le due bombe al parco e allo stadio, sui boschi le colline avrebbero preso fuoco come nel sogno, e i compagni incaricati della missione non erano più rintracciabili. In caso contrario, del resto, cosa gli avresti detto: che avevi sognato un gabbiano divorato dai pesci e che i pesci erano per te presagio di cattivo augurio? Avrebbero riso o creduto che il panico si fosse impossessato di te. Non restava che vestirsi dunque, e partire. Infilasti le mutandine da bagno, la camicia, i pantaloni. Era agosto e appena giunto laggiù ti saresti tolto camicia e pantaloni per restare in mutandine da bagno: chiunque, vedendoti, avrebbe concluso che eri un tipo bizzarro cui piace nuotare all’alba. Chi va ad ammazzare un tiranno indossando soltanto le mutandine da bagno? Calzasti le scarpe di corda. Le scarpe le avresti tenute perché le rocce erano taglienti. Oppure no? No, neanche le scarpe sarebbero state indispensabili nel tratto di scogliera compreso fra la strada e la riva perché, subito dopo, ti saresti gettato in acqua per raggiungere la barca a motore. Prendesti il portafoglio col denaro e i documenti falsi, lo ficcasti dentro il costume poi cambiasti idea e lo togliesti. Niente documenti: né veri né falsi. Se i pesci avessero agguantato il gabbiano, non avrebbero dovuto attribuirgli nessuna identità. E se lo avessero ucciso? Se lo avessero ucciso, i giornali avrebbero semplicemente parlato di un cadavere rinvenuto lungo il litorale di Sunio. Età, circa trent’anni. Altezza, un metro e settantaquattro. Peso, settanta chili scarsi. Costituzione, robusta. Capelli, neri. Pelle, molto bianca. Segni particolari, nessuno eccetto i baffi. Ma molti uomini in Grecia portano i baffi.
Guardasti l’orologio: quasi le sei. Tra poco Nicos ti avrebbe chiamato con un colpo di clacson e, mentre aspettavi quel colpo di clacson, il ricordo degli ultimi mesi ti aggredì tormentandoti come un prurito. Il giorno in cui avevi disertato per non servire il tiranno, di casa in casa eri andato a cercare qualcuno che ti ospitasse ma non ti ospitava nessuno, non ti aiutava nessuno, di ora in ora il cerchio dei poliziotti che ti davan la caccia si stringeva fino a fartene sentire il fiato sul collo, e con la volontà che vacillava ti chiedevi: soffrire, battersi, per chi, perché? Il giorno in cui avevi capito che l’altrui paura, l’altrui obbedienza, l’altrui sottomissione t’avrebbe perduto e quindi bisognava lasciare il paese, fuggire in cerca di nuove case dove chiedere ospitalità, con un passaporto falso t’eri imbarcato all’aeroporto di Atene e avevi raggiunto Cipro, per essere anche qui inseguito dai poliziotti, sentire anche qui il loro fiato sul collo, anche qui vacillare, chiedersi: soffrire, battersi, per chi, perché? Il giorno in cui avevi compreso che nemmeno lì saresti riuscito a ottenere nulla, il ministro degli Interni Gheorgazis ti braccava per consegnarti alla Giunta, quindi bisognava scappare ancora e avevi fame, avevi freddo, la notte dormivi in una capanna abbandonata, il giorno ti nutrivi rubando la frutta nei campi, ripetendoti soffrire, battersi, per chi, perché? Il giorno in cui il destino t’aveva condotto dall’unico che potesse salvarti, il presidente Makarios, e costui t’aveva offerto un lasciapassare per raggiunger l’Italia dicendo vada-dal-mio-ministro-Gheorgazis-glielo-firmerà, sicché c’eri andato col cuore in tumulto, eri entrato nel suo ufficio col dubbio che t’avessero teso una trappola, pronto a gridargli va bene mi arresti: tanto a che serve soffrire, battersi, gli uomini non sanno che farsene della libertà. E lui, alzando un volto tenebroso, incorniciato di barba corvina, quasi un cappuccio che nascondeva tutto fuorché gli occhi taglienti, aveva sorriso: «Uhm, tu. Proprio tu che cerco di acchiappare da mesi. Ti rendi conto dei rischi che correrei ad aiutarti?». «Non mi aiuti, allora, mi consegni agli sbirri! Tanto a che serve...» «Soffrire, battersi? A vivere, ragazzo mio. Chi si rassegna non vive: sopravvive.» Poi: «Cos’hai in mente, ragazzo?». «Una cosa e basta: un po’ di libertà.» «Sai sparare, mirare giusto?» «No.» «Sai fabbricare una bomba?» «No.» «Sei pronto a morire?» «Sì.» «Uhm! Morire è più facile che vivere ma ti aiuterò.» T’aveva aiutato davvero. T’aveva insegnato tutto ciò che sapevi. Senza di lui non avresti mai fabbricato le due mine che ora stavano sotto il ponticello, dopo la curva. Cinque chili di tritolo, un chilo e mezzo di plastico, due chili di zucchero. «Zucchero?» «Sì, provoca una combustione più rapida.» T’eri divertito come in un gioco a seguire le sue istruzioni: «Sarà abbastanza dolce? Mettiamoci un altro cucchiaino». Ma ora rabbrividivi pensando che non si trattava d’un gioco, si trattava di uccidere un uomo. Non avresti mai creduto di poter uccidere un uomo, non sapevi uccidere neanche una bestia. Questa formica, ad esempio. Una formica si stava arrampicando lungo il tuo braccio. La raccogliesti con dita leggere e la posasti sul tavolino. Il clacson suonò.
Controllasti l’ora, le sei, e con passo deciso scendesti le scale, raggiungesti Nicos che aspettava al volante del taxi, sedesti sul sedile posteriore per apparire un normale passeggero. Nicos era tuo cugino e faceva il tassista. Lo avevi scelto perché era tuo cugino, quindi potevi fidarti di lui, e perché faceva il tassista. Un taxi dà meno nell’occhio: quale poliziotto immagina che due vadano a compiere un attentato col taxi? Eppoi comprare o affittare un’automobile costa, tu i soldi necessari a comprare o affittare un’automobile non li avevi, per averli avresti dovuto stare in un partito, piegarti alle sue ideologie, alle sue leggi, ai suoi opportunismi: se non stai in un partito, se non offri la garanzia di un distintivo, chi ti guarda, chi ti finanzia? A Roma, dove t’eri rifugiato lasciando Cipro, i mestieranti della politica t’avevan dato chiacchiere e basta. Elemosine e basta. Compagno qui, compagno là, viva l’internazionalismo e la libertà, semmai una stanza per dormire e una bettola per sfamarti ognitanto, ma niente di più. A un certo punto un funzionario socialista, uno di quelli che gli si legge in faccia l’arte di far carriera, fottere il prossimo, e ti tagliavi gli orecchi se prima o poi non diventava un leader, t’aveva ricevuto. Fissandoti dietro gli occhiali da miope, grasso come un maiale, t’aveva promesso mari e monti: compagno qui, compagno là, viva l’internazionalismo e la libertà. Però dall’Italia eri ripartito con le tasche vuote e nemmeno dopo t’era giunta una dracma. Quanto ai compatrioti cui sarebbe spettato aiutarti, ad esempio colui che si considerava il gran capo della sinistra in esilio, li conoscevi bene. Compromettersi con un pazzo che insieme a un pugno di pazzi vuole uccidere il tiranno? Giammai! Naturalmente, se l’attentato fosse riuscito, ti sarebbero piombati addosso come cavallette su un campo di grano, avrebbero recitato il ruolo di complici e protettori, ora invece non ti offrivano che un cognacchino: bevi, ragazzo, e buona fortuna. «Hai mangiato ierisera?» chiese Nicos. «Sì, ierisera sì.» «Dove?» «In un ristorante.» «Ti sei fatto vedere in un ristorante?!» Scrollasti le spalle e, in silenzio, calcolasti se c’era tempo per passare da Glyfada, rivedere la casa col giardino d’aranci e limoni. Lì avevi trascorso la tua adolescenza e la tua gioventù, lì abitavano i tuoi genitori: rientrando ad Atene avevi fatto uno sforzo terribile per non avvicinarti. Guai a cedere a simili romanticismi, diceva Gheorgazis. Romanticismi? Forse, ma un uomo è un uomo anche perché cede ai romanticismi. «Passa da Glyfada» ordinasti a Nicos. «Da Glyfada? Ma è tardi!» «Fai ciò che ho detto.» Nicos ci passò davanti a gran velocità, facesti appena in tempo a scorgere la finestra della camera dove tuo padre dormiva e il giardino dove una vecchia vestita di nero annaffiava le rose. Il fatto che tua madre non avesse perso l’abitudine di svegliarsi all’alba per annaffiare le rose ti intenerì, il pensiero di tuo padre che dormiva ti strinse il cuore, con uno scatto ti girasti per guardare ancora ma Nicos stava già imboccando il viale adiacente e presto il taxi fu sulla strada che costeggia il mare. La strada che il tiranno faceva ogni mattina, dentro la sua Lincoln blindata, per recarsi dalla residenza di Lagonissi ad Atene. Nelle ultime settimane l’avevi percorsa decine di volte, in cerca del punto più adatto a sistemarvi le mine, e la prima scelta era caduta su un arco di roccia: ti sarebbe piaciuto bombardarlo dall’alto come un fulmine di Giove, una punizione divina. Il fatto è che non avrebbe funzionato, l’esplosivo agisce dal basso verso l’alto, ed eri stato costretto a ripiegare sul ponticello che si trovava dopo una curva. Più che un ponticello, una tana di cemento quadrata, profonda, su cui l’asfalto della strada passava con uno spessore di soli cinquanta centimetri. La distanza dalla base della tana all’asfalto della strada era di ottanta centimetri: neanche l’avessero costruita apposta. Piazzate lì le mine avrebbero aperto voragini larghe tre o quattro metri, e la forza dirompente sarebbe stata immensa. Unico problema, scappare alla luce del sole. Non a caso Gheorgazis diceva che gli attentati si fanno col buio, niente quanto il buio protegge la fuga. E se ti avessero visto scappare? Pazienza. Del resto a te non piaceva il buio. Nel buio si muovono i pipistrelli, le talpe, le spie, non gli uomini in lotta per la libertà.
Arrivasti sul ponticello un quarto alle sette. Nicos aprì svelto il portabagagli per darti il filo da collegare alle mine e subito ti sfuggì una bestemmia. La matassa era tutta arruffata, un intrico di nodi. «Cos’hai combinato, incosciente, cos’hai combinato?!» «Io nulla, io...» Ma non c’era tempo ormai per discutere, tantomeno per rimediare, sicché ti spogliasti, consegnasti a Nicos la camicia i pantaloni le scarpe, e scalzo, con le mutandine da bagno e basta, corresti verso la tana stringendoti al petto quell’intrico di nodi.
Il libro del Cortegiano, Baldassar Castiglione
I.
Quando il signor Guid’Ubaldo di Montefeltro2, duca d’Urbino, passò di questa vita, io insieme con alcun’altri cavalieri che l’aveano servito restai alli servizi del duca Francesco Maria della Rovere3, erede e successor di quello nel4 Stato; e come nell’animo mio era recente l’odor5 delle virtú del duca Guido e la satisfazione che io quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di cosí eccellenti persone, come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino, fui stimulato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io feci in pochi giorni6, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo dèbito erano nati7. Ma la fortuna8 già molt’anni m’ha sempre tenuto oppresso in cosí continui travagli9, che io non ho mai potuto pigliar spazio di ridurgli a termine, che il mio debil giudicio ne restasse contento. Ritrovandomi adunque in Ispagna10 ed essendo di Italia avvisato che la signora Vittoria dalla Colonna11, marchesa di Pescara, alla quale io già feci copia12 del libro, contra la promessa sua13ne avea fatto transcrivere una gran parte, non potei non sentirne qualche fastidio, dubitandomi di molti inconvenienti, che in simili casi possono occorrere; nientedimeno mi confidai che l’ingegno e prudenzia di quella Signora, la virtú della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina, bastasse a rimediare14 che pregiudicio alcuno non mi venisse dal- l’aver obedito a’ suoi comandamenti. In ultimo seppi che quella parte del libro si ritrovava in Napoli in mano di molti; e, come sono gli omini sempre cupidi di novità, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere15. Ond’io, spaventato da questo periculo, diterminaimi di riveder súbito nel libro quel poco che mi comportava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male lasciarlo veder poco castigato per mia mano che molto lacerato per man d’altri. Cosí, per eseguire questa deliberazione cominciai a rileggerlo; e súbito nella prima fronte16, ammonito dal titulo, presi non mediocre tristezza, la qual ancora nel passar piú avanti molto si accrebbe, ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono introdutti nei ragionamenti17, esser già morti: ché, oltre a quelli de chi si fa menzione nel proemio dell’ultimo18, morto è il medesimo messer Alfonso Ariosto19, a cui il libro è indrizzato, giovane affabile, discreto, pieno di suavissimi costumi ed atto ad ogni cosa conveniente ad omo di corte. Medesimamente il duca Iuliano de’ Medici20, la cui bontà e nobil cortesia meritava piú lungamente dal mondo esser goduta. Messer Bernardo21, cardinal di Santa Maria in Portico, il quale per una acuta e piacevole prontezza d’ingegno fu gratissimo a qualunque lo conobbe, pur è morto. Morto è il signor Ottavian Fregoso22, omo a’ nostri tempi rarissimo, magnanimo, religioso, pien di bontà, d’ingegno, prudenzia e cortesia e veramente amico d’onore e di virtú23 e tanto degno di laude, che li medesimi inimici suoi furono sempre constretti a laudarlo; e quelle disgrazie, che esso constantissimamente supportò, ben furono bastanti a far fede che la fortuna, come sempre fu, cosí è ancor oggidí contraria alla virtú. Morti son ancor molti altri24 dei nominati nel libro, ai quali parea che la natura promettesse lunghissima vita. Ma quello che senza lacrime raccontar non si devria è che la signora Duchessa25 essa ancor è morta; e se l’animo mio si turba per la perdita de tanti amici e signori mei, che m’hanno lasciato in questa vita come in una solitudine26 piena d’affanni, ragion è che molto piú acerbamente senta il dolore della morte della signora Duchessa che di tutti gli altri, perché essa molto piú che tutti gli altri valeva ed io ad essa molto piú che a tutti gli altri era tenuto. Per non tardare adunque a pagar quello, che io debbo alla memoria de cosí eccellente Signora e degli altri che piú non vivono, indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m’è stato concesso. E perché voi né della signora Duchessa né degli altri che son morti, fuor che del duca Iuliano e del Cardinale di Santa Maria in Portico, aveste noticia in vita loro, acciò che, per quanto io posso, l’abbiate dopo la morte, mandovi questo libro come un ritratto di pittura27 della corte d’Urbino, non di mano di Rafaello o Michel Angelo28, ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali, senza adornar la verità de vaghi colori o far parer per arte di prospettiva29 quello che non è. E come ch’io mi sia sforzato di dimostrar coi ragionamenti le proprietà e condicioni di quelli che vi sono nominati, confesso non avere, non che espresso, ma né anco accennato le virtú della signora Duchessa; perché non solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l’intelletto ad imaginarle; e se circa questo o altra cosa degna di riprensione30 (come ben so che nel libro molte non mancano) sarò ripreso, non contradirò alla verità.
1. Michel de Silva. Don Miguel da Sylva, gentiluomo portoghese, di fine cultura umanistica, diplomatico alla corte di Roma dal 1525, vescovo di Viseu nella provincia di Beira in Portogallo, e quindi cardinale nel 1541. A lui il Castiglione dedicò il Cortegiano, verosimilmente nel 1527 (C 1), senza lasciare esplicite motivazioni di questa scelta che maturò tuttavia negli ambienti della curia romana in tempi politicamente segnati dal conflitto tra Francia e Spagna. Si può avanzare l’ipotesi che siano state le nuove, precipitose, contingenze a mutare la destinazione di una dedica già, in precedenza, indirizzata all’amico Alfonso Ariosto (si veda oltre la nota 19). In effetti, di questa Lettera dedicatoria non vi è traccia nel ms Laurenziano-Ashburnhamiano 409 apografo del Cortegiano, mentre essa compare nell’editio princeps aldina del 1528.
2. Guid’Ubaldo di Montefeltro. Nato nel 1472, Guido Paolo Ubaldo – Guidubaldo – di Montefeltro succedette a suo padre il famoso Federico II, nel 1482. Sposatosi nel 1486 con Elisabetta Gonzaga, sorella di Francesco, marchese di Mantova, non ebbe discendenti diretti. Morí nel 1508.
3. Francesco Maria della Rovere. Nato nel 1490 da Giovanna, sorella di Guidubaldo di Montefeltro, e da Giovanni della Rovere, nel 1508 succedette allo zio, che lo aveva adottato fin dal 1504. Nel 1516, papa Leone X (Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico) lo privò del ducato per affidarlo al proprio nipote Lorenzo (figlio di suo fratello Piero). Alla morte di Leone, nel 1521, Francesco Maria della Rovere riprese possesso del ducato di Urbino. Sposato con Eleonora Gonzaga, figlia del marchese Francesco e di Isabella d’Este, morí nel 1538.
4. nel. Nello. Si tratta di un uso grammaticale ricorrente nel Cortegiano e frequente nella scrittura cinquecentesca dinanzi a parole che cominciano con la cosiddetta s impura, seguita cioè da consonante (C 1); si deve al Bembo, nelle sue Prose della volgar lingua (in Prose e Rime, a cura di C. Dionisotti, Torino 1960, III, IX, pp. 198-99), la fissazione della regola ancora oggi vigente.
5. odor. Il ricordo, l’impressione. Questo modo di esprimere una sensazione, sia pure con sfumature e accenti diversi, ricorrerà altre volte: al termine di questa dedicatoria (cap. III) «un certo odore del bene e del male»; quindi «un poco di odor di quella divinità» (libro III, cap. LII); e ancora «un certo odor nascoso della vera bellezza angelica» (libro IV, cap. LXVIII). Riprende Cicerone, che nel De oratore, III, XL.161, propone «odor urbanitatis» per suggerire un certo «profumo di gentilezza», avendo appena precisato che «omnis translatio quae quidem sumpta ratione est, ad sensus ipsos admovetur» (ibid., 160).
6. in pochi giorni. Allude a una prima stesura del testo redatta in breve tempo.
7. castigar … nati. Correggere – latinismo – gli errori scaturiti dall’ansia di dimostrare la propria riconoscenza verso i duchi urbinati e il nobile sodalizio che sotto la loro protezione si era raccolto.
8. fortuna. I casi della vita, ovvero anche le avversità. Si tratta di un termine chiave nella cultura umanistica, che assume significati diversi e talvolta opposti: tutti riconducibili, peraltro, a quanto di fortuito e imponderabile, nel bene e nel male, vi è in ogni circostanza. È la virtú, altra parola fondamentale, l’insieme delle risorse culturali e psicologiche, o piú particolarmente politiche, che permetterà di fronteggiare e dominare gli eventi, il caso, i capricci della fortuna. Il pensiero politico e storiografico fiorentino dei primi del Cinquecento è intessuto delle varie declinazioni d’uso di questi due termini. Machiavelli e Guicciardini ne sono i rappresentanti eminenti.
9. travagli. Gli intricati e faticosi maneggi della politica e della diplomazia.
10. Ispagna. L’11 marzo 1525 il Castiglione giunge a Madrid, alla corte imperiale di Carlo V, come nunzio apostolico di Clemente VII.
11. Vittoria dalla Colonna. Celebre poetessa, comunemente nota come Vittoria Colonna (1492-1547), moglie di Ferdinando Francesco d’Ávalos, marchese di Pescara.
12. feci copia. Il Castiglione, mentre si recava in Spagna, nel gennaio 1525, scriveva a Vittoria Colonna a proposito del Cortegiano, di cui aveva inviato in lettura un esemplare (si veda l’allusione fatta da Castiglione nella lettera ad Andrea Piperario del 14-26 marzo 1525, in B. Castiglione, Lettere famigliari e diplomatiche, a cura di G. La Rocca, A. Stella e U. Morando, Torino 2016, III, pp. 31-32; nonché la citazione nella lettera a Vittoria Colonna del 21 settembre 1527, ibid., pp. 358-60). Dieci giorni dopo il suo arrivo a Madrid, Castiglione riprendeva la corrispondenza con la marchesa per far giungere le sue congratulazioni al marito – gli era infatti giunta la notizia che l’illustre condottiero aveva sbaragliato le truppe francesi di Francesco I a Pavia –; ma anche per tornare sul tema del Cortegiano, riconoscendole cortesemente il ruolo di tacita ispiratrice: «Che, se havendo Vostra Signoria avuto desiderio che qualchuno scrivesse il Cortegiano, senza ch’ella me lo dicesse, né pur accennasse, l’animo mio come presago e proportionato in qualche parte a servirla, cosí come essa a comandarmi, lo intese e conobbe, et fu obedientissimo a questo suo tacito commandamento…» (cfr. ibid., p. 19: la lettera è del 21 marzo 1525).
13. contra la promessa sua. Vittoria Colonna non soltanto lesse il Cortegiano, ma provvide a farne trascrivere ampie parti lasciando intendere l’eventualità di darlo alle stampe. Ciò inquietò non poco il Castiglione, che si decise a ripulire e a emendare il testo nell’intento di preparare un’edizione controllata e approvata da lui, prima che altri potesse in alcun modo manometterlo o violarne la proprietà letteraria. Col garbo di un consumato uomo di corte non avrebbe comunque mosso alcun rimprovero alla sua interlocutrice; anzi, con una lettera del settembre 1527, le avrebbe nuovamente riconosciuto il merito anche di quella decisione: «Ma se Vostra Signoria pensasse che questo havesse hauto forza de intepidire punto il desiderio che io tengo di servirla, errarebbe di giudicio … anzi réstole io con maggior obligo, perché la necessità del farlo tosto imprimere mi ha levato fatica di aggiongervi molte cose che io havevo già ordinate nell’animo, le quali non potevano essere se non di poco momento come le altre» (la lettera è spedita da Burgos il 21 settembre 1527: cfr. ibid., pp. 359-60).
14. rimediare. Impedire, evitare.
15. imprimere. Stampare.
16. prima fronte. Fin dal frontespizio, a prima vista.
17. ragionamenti. Dialoghi. I personaggi che compaiono nel Cortegiano sono presentati secondo una formula dialogica ripresa dalla trattatistica antica. A loro è affidato il compito di avanzare «ragionamenti», scambiare opinioni e proporre esempi sui temi fondamentali.
18. proemio dell’ultimo. Il capitolo I del libro IV. Qui si citano Gaspare Pallavicino, Cesare Gonzaga e Roberto da Bari, di cui, al momento della redazione definitiva del suo testo, già il Castiglione deve piangere la scomparsa.
19. Alfonso Ariosto. Amico carissimo del Castiglione, era cugino di secondo grado di Ludovico, che lo avrebbe citato nell’Orlando furioso (XL, IV.3) come partecipante alla battaglia della Polesella contro i Veneziani del 22 dicembre 1509. Nato attorno al 1475, cresciuto alla corte estense, egli avrebbe suggerito al Castiglione il tema del Cortegiano, facendosi interprete di un desiderio del conte di Angoulême, successore di Luigi XII sul trono di Francia come Francesco I.
Il Castiglione, in effetti, ha parole di grande calore per il Re Cristianissimo in una Lettera dedicatoria che nella prima redazione compare indirizzata, per l’appunto, ad Alfonso Ariosto, primo dedicatario dell’opera. L’anno della dedica e della manifesta ammirazione del re di Francia dovrebbe essere il 1515 (C 504). Dopo che Francesco I e Leone X, nel 1516 mercanteggiarono il passaggio del ducato di Urbino a Lorenzo de’ Medici, gli entusiasmi del Castiglione evidentemente si raffreddarono; da una seconda redazione della Lettera dedicatoria egli cancellava le parole di plauso già levate nei riguardi del re di Francia. Quindi, pur mantenendo dedicati ad Alfonso i quattro libri della sua opera, nella redazione definitiva spariva del tutto la Lettera dedicatoria originaria e ad essa se ne sostituiva una nuova indirizzata, come s’è visto, a Don Miguel da Sylva. «Gentiluomo da ben; pur è molto francese»: Alfonso Ariosto era un uomo da ritenere in grandissima considerazione affettiva, ma elemento politicamente inaffidabile, e anzi imbarazzante per il Castiglione, impegnato a tessere trame imperiali, convintamente antifrancesi. L’Ariosto scomparve nel 1526.
20. Iuliano de’ Medici. Giuliano de’ Medici nacque nel 1479, minore dei figli di Lorenzo il Magnifico. Nel 1512 assunse il governo di Firenze e, tramite il matrimonio con Filiberta di Savoia, ottenne il ducato di Nemours. Le mire di Leone X su di lui si infransero contro le sue precarie condizioni di salute che gli impedirono di assumere il comando supremo dell’esercito pontificio contro i Francesi nel 1515. L’anno successivo moriva in Firenze: era il 17 marzo 1516.
A lui, in un primo momento, Machiavelli aveva dedicato il suo Principe, successivamente indirizzato a suo nipote Lorenzo. Poeta di qualche talento, fu ripreso dal Bembo nelle Prose della volgar lingua e rammentato dal Castiglione nell’egloga Tirsi, 43 (M 72).
21. Messer Bernardo. Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena, dal suo paese d’origine (1470-1520). Nominato cardinale da Leone X per la sua lunga e fedele milizia al servizio dei Medici, fu uomo di grande esperienza politica e di larghe frequentazioni delle corti europee del suo tempo. Compose la Calandria, un testo teatrale che venne rappresentato a Urbino in occasione del carnevale del 1513 con un prologo del Castiglione (che ne fa riferimento nella lettera a Ludovico Canossa, da Urbino 13/22 febbraio 1513: «Le nostre Comedie sono ite bene, massime il Calandro…», cfr. Castiglione, Lettere famigliari e diplomatiche cit., I, p. 264).
22. Ottavian Fregoso. Ottaviano Fregoso (1470-1524), nobile genovese, trascorse molti anni in esilio alla corte di Urbino. Tornato a Genova nel 1513, venne eletto doge; appoggiatosi ai Francesi, si mise in urto frontale con la parte imperiale. Nel 1522 le truppe spagnole e i mercenari tedeschi di Carlo V misero a sacco la città. Il Fregoso si consegnò prigioniero al marchese di Pescara che lo tradusse a Pavia e quindi a Ischia. Qui il Fregoso morí di stenti.
23. virtú. In questo caso il Castiglione attribuisce al termine virtú il significato piú ovvio di bagaglio di buone qualità impotenti a fronteggiare l’arbitrio maligno della sorte. Ma anche Machiavelli parlò di Ottaviano Fregoso come uomo di «virtú e prudenza», alludendo alla forza del condottiero risoluto e vittorioso in occasione della presa e della distruzione della fortezza di Genova (cfr. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II, 24.2). Verosimilmente, il fiorentino non avrebbe piú usato lo stesso termine dieci anni dopo per connotare un uomo pur eccellente che doveva tuttavia le sue sventure decisive ad errori di calcolo politico.
24. altri. Fra gli altri erano scomparsi Vincenzo Calmeta nel 1508, Gaspare Pallavicino nel 1511, Ludovico Pio, Cesare Gonzaga e Giovan Cristoforo Romano nel 1512 e Roberto da Bari nel 1513.
25. Duchessa. Elisabetta Gonzaga (1471-1526), sorella del marchese Francesco, moglie di Guidubaldo di Montefeltro, fu donna di celebrata bellezza e – con declinazione di significato evidentemente diversa da quella riservata agli uomini – di specchiate «virtú».
26. solitudine. Il vuoto lasciato dai molti compagni scomparsi era accentuato, allora, dalla lontananza fisica dai luoghi che avevano segnato i grati ricordi del Castiglione: egli era in Spagna, a disimpegnare i suoi uffici diplomatici, quando scriveva queste pagine.
27. pittura. Il ruolo della pittura nella formazione della personalità del Castiglione è determinante: e non a caso egli si affida a questo modello di rappresentazione per definire la sua memoria della corte urbinate. Questa sua sensibilità e la frequentazione del mondo dell’arte lo distanziano da altri grandi aristocratici che, come il Guicciardini, hanno condiviso la scena italiana del tempo.
28. Rafaello o Michel Angelo. Raffaello Sanzio e Michelangelo Buonarroti sono i due massimi artisti dell’epoca. Castiglione ebbe rapporti di fraterna amicizia con Raffaello; il ritratto che questi gli fece è ora conservato al Louvre.
29. prospettiva. Come si vedrà in seguito (libro I, cap. LI), Castiglione dimostra notevole dimestichezza con le cognizioni tecniche e l’orizzonte culturale da cui rileva il concetto di prospettiva, che è acquisizione ancora recente per gli stessi teorici e per gli artisti della sua epoca.
30. riprensione. Biasimo.
A domani,
Nat