I Malavoglia di Giovanni Verga, Il confine di Jhumpa Lahiri, rotocalco, La vita in tasca di Simona Sparaco, Le regole uccidono l'identità di Olivier Roy
Buongiorno ,
Parole per ricordare di Zanichelli: rotocalco
Poema del giorno: Ora che sale il giorno, Salvatore Quasimodo
Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.
E’ così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura,
per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli!
La vita in tasca di Simona Sparaco
I Malavoglia #1 di Giovanni Verga
Capitolo primo
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n'erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev'essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron 'Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch'era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla.
Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron 'Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso - un pugno che sembrava fatto di legno di noce - «Per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino l'un l'altra.»
Diceva pure: - Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.
E la famigliuola di padron 'Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant'ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c'era dipinto sotto l'arco della pescheria della città; e così grande e grosso com'era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «soffiati il naso» tanto che s'era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: 'Ntoni il maggiore, un bighellone di vent'anni, che si buscava tutt'ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l'equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant'Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. - Alla domenica, quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro, pareva una processione.
Padron 'Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: «Perché il motto degli antichi mai mentì»: - «Senza pilota barca non cammina» - «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» - oppure - «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» - «Contentati di quel che t'ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron 'Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l'avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria.
Padron 'Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto».
Nel dicembre 1863, 'Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare. Padron 'Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario, gli avea risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quella rivoluzione di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. Invece don Franco lo speziale si metteva a ridere fra i peli della barbona, e gli giurava fregandosi le mani che se arrivavano a mettere assieme un po' di repubblica, tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero presi a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati più, e invece tutti sarebbero andati alla guerra, se bisognava. Allora padron 'Ntoni lo pregava e lo strapregava per l'amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote 'Ntoni andasse soldato, come se don Franco ce l'avesse in tasca; tanto che lo speziale finì coll'andare in collera. Allora don Silvestro il segretario si smascellava dalle risa a quei discorsi, e finalmente disse lui che con un certo gruzzoletto fatto scivolare in tasca a tale e tal altra persona che sapeva lui, avrebbero saputo trovare a suo nipote un difetto da riformarlo. Per disgrazia il ragazzo era fatto con coscienza, come se ne fabbricano ancora ad Aci Trezza, e il dottore della leva, quando si vide dinanzi quel pezzo di giovanotto, gli disse che aveva il difetto di esser piantato come un pilastro su quei piedacci che sembravano pale di ficodindia; ma i piedi fatti a pala di ficodindia ci stanno meglio degli stivalini stretti sul ponte di una corazzata, in certe giornataccie; e perciò si presero 'Ntoni senza dire «permettete». La Longa, mentre i coscritti erano condotti in quartiere, trottando trafelata accanto al passo lungo del figliuolo, gli andava raccomandando di tenersi sempre sul petto l'abitino della Madonna, e di mandare le notizie ogni volta che tornava qualche conoscente dalla città, che poi gli avrebbero mandati i soldi per la carta.
Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch'esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l'avesse con lei. Così se ne tornarono ad Aci Trezza zitti zitti e a capo chino. Bastianazzo, che si era sbrigato in fretta dal disarmare la Provvidenza, per andare ad aspettarli in capo alla via, come li vide comparire a quel modo, mogi mogi e colle scarpe in mano, non ebbe animo di aprir bocca, e se ne tornò a casa con loro. La Longa corse subito a cacciarsi in cucina, quasi avesse furia di trovarsi a quattr'occhi colle vecchie stoviglie, e padron 'Ntoni disse al figliuolo:
- Va a dirle qualche cosa, a quella poveretta; non ne può più.
Il giorno dopo tornarono tutti alla stazione di Aci Castello per veder passare il convoglio dei coscritti che andavano a Messina, e aspettarono più di un'ora, pigiati dalla folla, dietro lo stecconato. Finalmente giunse il treno, e si videro tutti quei ragazzi che annaspavano, col capo fuori dagli sportelli, come fanno i buoi quando sono condotti alla fiera. I canti, le risate e il baccano erano tali che sembrava la festa di Trecastagni, e nella ressa e nel frastuono ci si dimenticava perfino quello stringimento di cuore che si aveva prima.
«Addio 'Ntoni!» - «Addio mamma!» - «Addio! ricordati! ricordati!» - Lì presso, sull'argine della via, c'era la Sara di comare Tudda, a mietere l'erba pel vitello; ma comare Venera la Zuppidda andava soffiando che c'era venuta per salutare 'Ntoni di padron 'Ntoni, col quale si parlavano dal muro dell'orto, li aveva visti lei, con quegli occhi che dovevano mangiarseli i vermi. Certo è che 'Ntoni salutò la Sara colla mano, ed ella rimase colla falce in pugno a guardare finché il treno non si mosse. Alla Longa, l'era parso rubato a lei quel saluto; e molto tempo dopo, ogni volta che incontrava la Sara di comare Tudda, nella piazza o al lavatoio, le voltava le spalle.
Poi il treno era partito fischiando e strepitando in modo da mangiarsi i canti e gli addii. E dopo che i curiosi si furono dileguati, non rimasero che alcune donnicciuole, e qualche povero diavolo, che si tenevano ancora stretti ai pali dello stecconato, senza saper perché. Quindi a poco a poco si sbrancarono anch'essi, e padron 'Ntoni, indovinando che la nuora dovesse avere la bocca amara, le pagò due centesimi di acqua col limone.
Comare Venera la Zuppidda, per confortare comare la Longa, le andava dicendo: - Ora mettetevi il cuore in pace, che per cinque anni bisogna fare come se vostro figlio fosse morto, e non pensarci più.
Ma pure ci pensavano sempre, nella casa del nespolo, o per certa scodella che le veniva tutti i giorni sotto mano alla Longa nell'apparecchiare il deschetto, o a proposito di certa ganza che 'Ntoni sapeva fare meglio di ogni altro alla funicella della vela, e quando si trattava di serrare una scotta tesa come una corda di violino, o di alare una parommella che ci sarebbe voluto l'argano. Il nonno ansimando cogli ohi! ooohi! intercalava - Qui ci vorrebbe 'Ntoni - oppure - Vi pare che io abbia il polso di quel ragazzo? La madre, mentre ribatteva il pettine sul telaio - uno! due! tre! - pensava a quel bum bum della macchina che le aveva portato via il figliuolo, e le era rimasto sul cuore, in quel gran sbalordimento, e le picchiava ancora dentro il petto, - uno! due! tre!
Il nonno poi aveva certi singolari argomenti per confortarsi, e per confortare gli altri: - Del resto volete che vel dica? Un po' di soldato gli farà bene a quel ragazzo; ché il suo paio di braccia gli piaceva meglio di portarsele a spasso la domenica, anziché servirsene a buscarsi il pane.
Oppure: - Quando avrà provato il pane salato che si mangia altrove, non si lagnerà più della minestra di casa sua.
Finalmente arrivò da Napoli la prima lettera di 'Ntoni, che mise in rivoluzione tutto il vicinato. Diceva che le donne, in quelle parti là, scopavano le strade colle gonnelle di seta, e che sul molo c'era il teatro di Pulcinella, e si vendevano delle pizze, a due centesimi, di quelle che mangiano i signori, e senza soldi non ci si poteva stare, e non era come a Trezza, dove se non si andava all'osteria della Santuzza non si sapeva come spendere un baiocco. - Mandiamogli dei soldi per comperarsi le pizze, al goloso! brontolava padron 'Ntoni; già lui non ci ha colpa, è fatto così; è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero un chiodo arrugginito. Se non l'avessi tenuto a battesimo su queste braccia, direi che don Giammaria gli ha messo in bocca dello zucchero invece di sale.
La Mangiacarrubbe, quando al lavatoio c'era anche Sara di comare Tudda, tornava a dire:
- Sicuro! le donne vestite di seta aspettavano apposta 'Ntoni di padron 'Ntoni per rubarselo; che non ne avevano visti mai dei cetriuoli laggiù!
Le altre si tenevano i fianchi dal ridere, e d'allora in poi le ragazze inacidite lo chiamarono «cetriuolo».
'Ntoni aveva mandato anche il suo ritratto, l'avevano visto tutte le ragazze del lavatoio, come la Sara di comare Tudda lo faceva passare di mano in mano, sotto il grembiule, e la Mangiacarrubbe schiattava dalla gelosia. Pareva San Michele Arcangelo in carne ed ossa, con quei piedi posati sul tappeto, e quella cortina sul capo, come quella della Madonna dell'Ognina, così bello, lisciato e ripulito che non l'avrebbe riconosciuto più la mamma che l'aveva fatto; e la povera Longa non si saziava di guardare il tappeto e la cortina e quella colonna contro cui il suo ragazzo stava ritto impalato, grattando colla mano la spalliera di una bella poltrona; e ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie. Ella teneva il ritratto sul canterano, sotto la campana del Buon Pastore - che gli diceva le avemarie - andava dicendo la Zuppidda, e si credeva di averci un tesoro sul canterano, mentre suor Mariangela la Santuzza ce ne aveva un altro, tal quale chi voleva vederlo, che glielo aveva regalato compare Mariano Cinghialenta, e lo teneva inchiodato sul banco dell'osteria, dietro i bicchieri.
Ma dopo un po' di tempo 'Ntoni aveva pescato un camerata che sapeva di lettere, e si sfogava a lagnarsi della vitaccia di bordo, della disciplina, dei superiori, del riso lungo e delle scarpe strette. - Una lettera che non valeva i venti centesimi della posta! borbottava padron 'Ntoni. La Longa se la prendeva con quegli sgorbj, che sembravano ami di pesceluna, e non potevano dir nulla di buono. Bastianazzo dimenava il capo e faceva segno di no, che così non andava bene, e se fosse stato in lui ci avrebbe messo sempre delle cose allegre, da far ridere il cuore agli altri, lì sulla carta, - e vi appuntava un dito grosso come un regolo da forcola - se non altro per compassione della Longa, la quale, poveretta, non si dava pace, e sembrava una gatta che avesse perso i gattini. Padron 'Ntoni andava di nascosto a farsi leggere la lettera dallo speziale, e poi da don Giammaria, che era del partito contrario, affine di sentire le due campane, e quando si persuadeva che era scritto proprio così, ripeteva con Bastianazzo, e con la moglie di lui:
- Non ve lo dico io che quel ragazzo avrebbe dovuto nascer ricco, come il figlio di padron Cipolla, per stare a grattarsi la pancia senza far nulla!
Intanto l'annata era scarsa e il pesce bisognava darlo per l'anima dei morti, ora che i cristiani avevano imparato a mangiar carne anche il venerdì come tanti turchi. Per giunta le braccia rimaste a casa non bastavano più al governo della barca, e alle volte bisognava prendere a giornata Menico della Locca, o qualchedun altro. Il re faceva così, che i ragazzi se li pigliava per la leva quando erano atti a buscarsi il pane; ma sinché erano di peso alla famiglia, avevano a tirarli su per soldati; e bisognava pensare ancora che la Mena entrava nei diciassett'anni, e cominciava a far voltare i giovanotti quando andava a messa. «L'uomo è il fuoco, e la donna è la stoppa: viene il diavolo e soffia». Perciò si doveva aiutarsi colle mani e coi piedi per mandare avanti quella barca della casa del nespolo.
Padron 'Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che c'era un bastimento di Trieste a pigliar carico. Veramente i lupini erano un po' avariati; ma non ce n'erano altri a Trezza, e quel furbaccio di Campana di legno sapea pure che la Provvidenza se la mangiava inutilmente il sole e l'acqua, dov'era ammarrata sotto il lavatoio, senza far nulla; perciò si ostinava a fare il minchione. - Eh? non vi conviene? lasciateli! Ma un centesimo di meno non posso, in coscienza! che l'anima ho da darla a Dio! - e dimenava il capo che pareva una campana senza batacchio davvero. Questo discorso avveniva sulla porta della chiesa dell'Ognina, la prima domenica di settembre, che era stata la festa della Madonna, con gran concorso di tutti i paesi vicini; e c'era anche compare Agostino Piedipapera, il quale colle sue barzellette riuscì a farli mettere d'accordo sulle due onze e dieci a salma, da pagarsi «col violino» a tanto il mese. Allo zio Crocifisso gli finiva sempre così, che gli facevano chinare il capo per forza, come Peppinino, perché aveva il maledetto vizio di non sapere dir di no. - Già! voi non sapete dir di no, quando vi conviene, sghignazzava Piedipapera. Voi siete come le… e disse come.
Allorché la Longa seppe del negozio dei lupini, dopo cena, mentre si chiacchierava coi gomiti sulla tovaglia, rimase a bocca aperta; come se quella grossa somma di quarant'onze se la sentisse sullo stomaco. Ma le donne hanno il cuore piccino, e padron 'Ntoni dovette spiegarle che se il negozio andava bene c'era del pane per l'inverno, e gli orecchini per Mena, e Bastiano avrebbe potuto andare e venire in una settimana da Riposto, con Menico della Locca. Bastiano intanto smoccolava la candela senza dir nulla. Così fu risoluto il negozio dei lupini, e il viaggio della Provvidenza che era la più vecchia delle barche del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Maruzza se ne sentiva sempre il cuore nero, ma non apriva bocca, perché non era affar suo, e si affaccendava zitta zitta a mettere in ordine la barca e ogni cosa pel viaggio, il pane fresco, l'orciolino coll'olio, le cipolle, il cappotto foderato di pelle, sotto la pedagna e nella scaffetta.
Gli uomini avevano avuto un gran da fare tutto il giorno, con quell'usuraio dello zio Crocifisso, il quale aveva venduto la gatta nel sacco, e i lupini erano avariati. Campana di legno diceva che lui non ne sapeva nulla, come è vero Iddio! «Quel ch'è di patto non è d'inganno»; che l'anima lui non doveva darla ai porci! e Piedipapera schiamazzava e bestemmiava come un ossesso per metterli d'accordo, giurando e spergiurando che un caso simile non gli era capitato da che era vivo; e cacciava le mani nel mucchio dei lupini e li mostrava a Dio e alla Madonna, chiamandoli a testimoni. Infine, rosso, scalmanato, fuori di sé, fece una proposta disperata, e la piantò in faccia allo zio Crocifisso rimminchionito, e ai Malavoglia coi sacchi in mano: - Là! pagateli a Natale, invece di pagarli a tanto al mese, e ci avrete un risparmio di un tarì a salma! La finite ora, santo diavolone? - E cominciò ad insaccare: - In nome di Dio, e uno!
La Provvidenza partì il sabato verso sera, e doveva esser suonata l'avemaria, sebbene la campana non si fosse udita, perché mastro Cirino il sagrestano era andato a portare un paio di stivaletti nuovi a don Silvestro il segretario; in quell'ora le ragazze facevano come uno stormo di passere attorno alla fontana, e la stella della sera era già bella e lucente, che pareva una lanterna appesa all'antenna della Provvidenza. Maruzza colla bambina in collo se ne stava sulla riva, senza dir nulla, intanto che suo marito sbrogliava la vela, e la Provvidenza si dondolava sulle onde rotte dai fariglioni come un'anitroccola. - «Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura», diceva padron 'Ntoni dalla riva, guardando verso la montagna tutta nera di nubi.
Menico della Locca, il quale era nella Provvidenza con Bastianazzo, gridava qualche cosa che il mare si mangiò. - Dice che i denari potete mandarli a sua madre, la Locca, perché suo fratello è senza lavoro; aggiunse Bastianazzo, e questa fu l'ultima sua parola che si udì.
Racconti romani: Il confine di Jhumpa Lahiri
1
Ogni sabato viene una nuova famiglia per un certo periodo. Alcune arrivano presto al mattino, da lontano, già pronte per iniziare le vacanze. Altre non compaiono fino al tramonto, magari dopo aver perso la strada, di cattivo umore. Qui è facile perdersi, tra le colline le indicazioni sono poche.
Oggi, quando si presentano, li accolgo io. Di solito è mia madre che lo fa. Quest’anno deve passare l’estate in un paese vicino per assistere un vecchietto, in vacanza pure lui, per cui tocca a me.
I nuovi arrivati sono quattro: madre, padre, due figlie. Mi seguono con occhi attenti, contenti di poter sgranchire le gambe.
Ci fermiamo per un momento nel patio ombreggiato che dà sul prato, sotto il tetto di frasche che filtra la luce. Apro la porta scorrevole di vetro e faccio vedere l’interno: il soggiorno invitante con due divani morbidi davanti al camino, la cucina ben attrezzata, le due camere da letto.
Fuori, nel patio, ci sono due poltrone e un altro divano coperti di stoffa bianca. Ci sono lettini per sdraiarsi e un tavolo di legno abbastanza grande per dieci persone.
Mentre il padre inizia a scaricare i bagagli dalla macchina e le bambine, che avranno sette e nove anni, spariscono nella loro camera, chiudendo subito la porta, io dico alla madre dove si trovano gli asciugamani di scorta, le coperte di lana se per caso fa fresco di notte.
Le faccio vedere rapidamente dov’è nascosto il veleno per i topi. Le suggerisco, prima di dormire, di uccidere le mosche che volano dentro casa, altrimenti all’alba il loro ronzio darà subito fastidio. Le spiego come si raggiunge il supermercato, come funziona la lavatrice dietro la casa e dove si stendono i panni, appena oltre l’orto che coltiva mio padre.
Aggiungo che gli ospiti possono tranquillamente raccogliere lattughe e pomodori. C’è una gran quantità di pomodori quest’anno, ma per via delle piogge di luglio sono quasi tutti marci ormai.
2
Faccio finta di non osservarli, di essere discreta. Mi occupo delle faccende di casa, bagno il giardino, ma non posso fare a meno di percepire la loro allegria, l’entusiasmo per il fatto di trovarsi qui. Sento le voci delle bambine che corrono sul prato, imparo i loro nomi. Dato che gli ospiti tendono a lasciare sempre aperta la porta scorrevole, ascolto le parole che si scambiano i genitori mentre sistemano la casa, mentre disfano le valigie e decidono cosa mangiare per pranzo.
La casetta della mia famiglia, dietro un’alta siepe che crea una piccola barriera visiva, è a pochi metri di distanza. La nostra casa per molti anni non è stata altro che una stanza che serviva da cucina e camera da letto per noi tre. Poi, quando ho compiuto tredici anni, due anni fa, mia madre ha cominciato a lavorare per il vecchietto, e dopo aver risparmiato abbastanza i miei hanno chiesto al proprietario di aggiungere una stanzetta per me dove, la notte, emergono le lucertole grassottelle dalle fessure fra le pareti e il soffitto.
Mio padre è il custode di questa proprietà. Provvede al mantenimento della casa grande, taglia la legna, lavora nei campi e nelle vigne. Bada ai cavalli di cui il padrone è appassionato.
Il padrone della casa vive all’estero, ma non è straniero come noi. Viene qui di tanto in tanto. Viene da solo, non ha famiglia. Di giorno va a cavallo, di sera legge dei libri davanti al camino, poi riparte.
Durante l’anno gli ospiti che affittano la sua casa sono pochissimi. Qui d’inverno fa un freddo pungente e in primavera piove molto. La mattina, da settembre fino a giugno, mio padre mi porta in macchina a scuola, dove mi sento diversa, dove non mi mischio facilmente agli altri, dove non assomiglio a nessuno.
Le bambine di questa famiglia si assomigliano molto. Si vede subito che sono sorelle. Hanno già messo costumi da bagno identici per andare, più tardi, al mare, a circa venti chilometri di distanza da qui. Anche la madre sembra una ragazzina, snella, bassa. Ha capelli lunghi e sciolti, spalle delicate. Cammina a piedi nudi sull’erba anche se il marito la ammonisce, dicendo (giustamente) che ci potrebbero essere porcospini, calabroni, serpenti.
3
Dopo soltanto un paio d’ore è come se abitassero qui da sempre. Le cose che hanno portato per una settimana in campagna sono sparpagliate ovunque: libri, riviste, un computer portatile, bambole, felpe, matite colorate, blocchi di carta, ciabatte di gomma, creme solari. A pranzo sento le forchette che colpiscono i piatti, mi accorgo di ogni volta che uno di loro appoggia il bicchiere sul tavolo. Percepisco il filo lento della loro conversazione, il rumore e l’aroma della caffettiera, il fumo di una sigaretta.
Dopo mangiato il padre chiede a una delle bambine di portargli i suoi occhiali da vista. Studia a lungo una carta geografica. Elenca le cittadine da vedere nei dintorni, i siti archeologici, gli scavi. Alla madre non interessa. Dice che questa è l’unica settimana dell’anno senza impegni, appuntamenti, obblighi.
Più tardi lui parte con le figlie per il mare. Mi chiede, prima di andare, quanto ci vuole, quale sia la spiaggia migliore. Mi chiede quali siano le previsioni per la settimana e gli dico che tra qualche giorno inizierà la calura.
La madre resta a casa. Ha messo il costume lo stesso per prendere il sole.
Si sdraia su un lettino. Suppongo che voglia riposarsi ma vedo, quando vado a stendere i panni, che sta scrivendo qualcosa. Scrive a mano su un taccuino appoggiato sulle gambe.
Ogni tanto alza la testa e scruta il paesaggio tutt’attorno. Fissa le diverse sfumature di verde del prato, delle colline e del bosco in lontananza. L’azzurro abbagliante del cielo, il giallo del fieno. La ringhiera scolorita e il basso muro di pietra che delimita il terreno. Guarda tutto quello che vedo ogni giorno. Eppure mi chiedo che cosa lei veda in più.
4
Al tramonto indossano maglioni, pantaloni lunghi per evitare le punture delle zanzare. Dopo la spiaggia il padre e le bambine hanno fatto una doccia calda, per cui ora hanno i capelli bagnati.
Le bambine raccontano alla madre la loro gita: la sabbia che scottava, l’acqua un po’ torbida, le onde miti e deludenti. Tutta la famiglia fa una breve passeggiata. Vanno a vedere i cavalli, gli asini, un cinghiale tenuto nel porcile dietro le stalle. Vanno a vedere il branco di pecore che passa ogni giorno a quest’ora davanti a casa, bloccando le macchine sulla strada polverosa per qualche minuto.
Il padre scatta foto quasi in continuazione con il cellulare. Fa vedere alle bambine i piccoli pruni, i fichi, gli ulivi. Dice che la frutta raccolta da un albero ha un sapore diverso, perché sa di campagna, di sole.
Nel patio i genitori aprono una bottiglia di vino, assaggiano un formaggio, del miele di queste parti. Ammirano il paesaggio sfolgorante, si meravigliano delle nuvole massicce e luminose. Colore della melagrana di ottobre.
Cala la sera. Ascoltano il verso delle rane, dei grilli, il fruscio del vento. Nonostante la brezza decidono di cenare fuori per approfittare della luce.
Io e mio padre ceniamo dentro, in silenzio. Lui tende a non sollevare lo sguardo mentre mangiamo. Senza mia madre non c’è nessuna conversazione a tavola. Di solito, a cena, parla lei.
Mia madre non sopporta questo luogo, questo paese. Viene, insieme a mio padre, da ancora più lontano di chiunque venga qui in vacanza. Lei odia vivere in campagna, in mezzo al nulla. Dice che qui non si trovano persone per bene, che la gente del posto è chiusa.
Non mi mancano le sue lamentele. Non mi piace sentirla, anche se temo che abbia ragione. A volte, quando si lagna troppo, mio padre dorme in macchina invece che accanto a lei.
Dopo cena le bambine girano intorno al campo seguendo le lucciole. Giocano con le torce. I genitori restano sul divano, contemplando il cielo stellato, il buio profondo.
La madre sorseggia dell’acqua calda con limone, il padre un goccino di grappa. Dicono che qui non c’è bisogno di altro, che qui perfino l’aria è diversa, un’aria che pulisce. Che bello, dicono, stare insieme, lontani da tutto, così.
5
La mattina presto vado nel pollaio a raccogliere le uova della gallina. Sono calde, pallide, sporche. Ne metto alcune in una ciotola e le porto agli ospiti per la colazione. Di solito non trovo nessuno e le lascio nel patio, sul tavolo, ma quando scendo vedo attraverso la porta scorrevole che le bambine si sono già svegliate. Vedo pacchetti di biscotti sul divano, briciole, una scatola di cereali rovesciata sul tavolino.
Le bambine stanno provando a schiacciare le mosche che la mattina volano dentro la casa. La più grande ha in mano la paletta ammazzamosche. La sorellina, frustrata, protesta perché sta aspettando da tanto il suo turno. Dice che vuole ammazzarle anche lei.
Lascio le uova e torno a casa nostra. Poi busso alla loro porta e presto alle bambine la nostra paletta, così sono entrambe contente. Non ripeto che conviene uccidere le mosche prima di andare a letto. Vedo come si divertono mentre i genitori, nonostante la molestia delle mosche, nonostante il clamore delle bambine, riescono a dormire.
6
Nel giro di un paio di giorni si è stabilito un ritmo prevedibile. In tarda mattinata il padre va in paese, al bar, per comprare il latte, il giornale e per prendere un secondo caffè. Fa un salto al supermercato se c’è bisogno. Quando torna, nonostante l’afa, va a correre tra le colline. Una volta arriva a casa scosso, dopo aver incrociato un cane pastore che gli sbarrava la strada minacciandolo, anche se alla fine non è successo niente.
La madre fa quello che faccio io: spazza il pavimento, prepara da mangiare, lava i piatti. Almeno una volta al giorno stende i panni, condividiamo la stessa corda del bucato sulla quale i nostri abiti si mescolano, si asciugano. Dice al marito, con la cesta tra le braccia, quant’è felice di poterlo fare. Vivendo in città, in un appartamento senza giardino, senza balcone e senza terrazza sul tetto, non le capita mai di stendere i vestiti all’aperto.
Dopo pranzo il padre porta le bambine in spiaggia e la madre resta a casa da sola. Fuma una sigaretta, sdraiata, concentrata, e prende appunti sul taccuino.
Un giorno le bambine trascorrono ore a caccia dei grilli che saltano nell’erba. Provano ad acchiapparli. Ne mettono un paio in un barattolo con pezzettini di pomodori rubati all’insalata dei genitori. Li trasformano in animali domestici, danno loro perfino dei nomi. Il giorno seguente i grilli sono morti soffocati nel barattolo, e le bambine piangono. Li seppelliscono sotto il pruno e ci mettono sopra dei fiori di campo.
Un altro giorno il padre scopre che una delle sue ciabatte di gomma, lasciate fuori casa, è sparita. Gli spiego che probabilmente l’ha presa la volpe, ce n’è una in giro. Informo mio padre e lui, che conosce le abitudini e le tane di tutti gli animali di queste parti, riesce a ritrovarla, insieme a un pallone e a una borsa della spesa lasciati dalla famiglia precedente.
Capisco quanto piace agli ospiti questo paesaggio rurale, invariabile. Vedo quanto apprezzino ogni particolare, come li aiuti a pensare, a riposare, a sognare. Quando le bambine vanno a raccogliere le more da un cespuglio, sporcando i bei vestiti che indossano, la madre non se la prende con loro. Anzi, ride. Chiede al padre di fare una foto alle figlie, poi va a lavare i vestiti.
Allo stesso tempo mi domando cosa sappiano loro del nostro isolamento. Che cosa sanno dei giorni tutti uguali nella nostra casa scalcinata? Delle notti in cui tira vento finché la terra sembra tremare, o quando il rumore della pioggia mi tiene sveglia? Dei mesi durante i quali siamo soli tra le colline, i cavalli, gli insetti, gli uccelli che passano sui campi? A loro piacerebbe la quiete implacabile che regna qui tutto l’inverno?
7
L’ultima sera arrivano altre macchine. Sono amici degli ospiti, invitati con altri bambini che corrono sul prato.
Un paio di persone dicono che non c’era traffico venendo dalla città. Gli adulti fanno un giro della casa, del giardino al tramonto. Il tavolo nel patio è già apparecchiato.
Sento tutti i rumori della cena, le chiacchiere e le risate, stasera amplificati. La famiglia racconta le proprie disavventure in campagna: il funerale dei grilli che mangiavano pomodori sotto l’albero delle prugne. Il cane pastore, la volpe che aveva rubato la ciabatta. La madre dice che alle bambine ha fatto bene un vero contatto con la natura.
A un certo punto arriva una torta con delle candeline e capisco che oggi è il compleanno del padre. Ha compiuto quarantacinque anni. Tutti cantano, viene tagliata la torta.
Io e mio padre finiamo dell’uva un po’ guasta. Sto per sparecchiare quando sento bussare alla porta. Vedo le bambine, titubanti, annaspanti. Mi danno un piatto che contiene due fette di torta, una per me e una per mio padre. Prima che riesca a ringraziarle scappano via.
Mangiamo la torta mentre gli ospiti parlano del governo, dei viaggi, delle loro vite in città. Qualcuno chiede alla madre dove abbia comprato il dolce e lei risponde che l’ha portato uno degli invitati il quale, a sua volta, menziona il nome della pasticceria, il nome della piazza.
Mio padre appoggia la forchetta e abbassa la testa. Quando mi guarda ha occhi agitati. Si alza bruscamente, poi esce di casa per fumare una sigaretta, inosservato.
8
Anche noi una volta abitavamo in città. Mio padre lavorava come fioraio in quella stessa piazza. Mia madre lo aiutava.
Passavano le giornate l’uno accanto all’altra in un posto piccolo ma piacevole. Vendevano i fiori che la gente portava a casa per decorare le tavole, i terrazzi. Appena arrivati in questo paese avevano imparato i nomi dei fiori: rosa, girasole, garofano, margherita; li tenevano tutti coi gambi tagliati, immersi nell’acqua fresca in una serie di secchi.
Una sera si erano presentati tre ragazzi. Mio padre era da solo; mia madre, allora incinta di me, era rimasta a casa, perché lui non voleva che lei lavorasse di sera. Era tardi, gli altri negozi della piazza erano chiusi e mio padre stava per abbassare la serranda.
Uno dei ragazzi gli aveva chiesto di riaprire, stava per andare a trovare la sua fidanzata e gli serviva un bel mazzo. Lui aveva acconsentito, anche se loro erano maleducati, un po’ ubriachi.
Quando mio padre aveva mostrato il mazzo, il ragazzo l’aveva trovato scarno e gli aveva chiesto di aggiungere più fiori. Mio padre ne aveva messi altri, una quantità esagerata, finché il ragazzo non era stato soddisfatto. Aveva avvolto i fiori nella carta, poi aveva legato intorno il nastro colorato, fissando il fiocco. Aveva detto il prezzo.
Il ragazzo aveva tirato fuori dalla tasca un po’ di soldi. Non bastavano. E quando mio padre aveva rifiutato di consegnargli i fiori, il ragazzo gli aveva detto che era un deficiente, che non capiva nulla, che non sapeva neanche fare un bel mazzo per una bella ragazza. Poi, insieme agli altri, aveva cominciato a colpirlo fino a spaccargli i denti.
Mio padre aveva la bocca piena di sangue, urlava, ma a quell’ora non lo aveva sentito nessuno. I ragazzi gli avevano gridato di tornarsene al suo paese. Avevano preso il mazzo e lo avevano lasciato per terra, così. Mio padre era finito al pronto soccorso.
Per un anno non ha potuto mangiare cibo solido. Quando mi ha visto per la prima volta, dopo che sono nata, non è riuscito a dire nulla.
Da allora fa fatica a parlare. Le parole si ingarbugliano, come se lui fosse un vecchio. Si vergogna a sorridere perché gli mancano dei denti. Io e mia madre lo capiamo ma gli altri no, pensano che, essendo straniero, non sappia bene la lingua, a volte perfino che sia muto.
Quando arrivano le pere, le mele rosse che crescono in giardino, gliele tagliamo in fette quasi trasparenti in modo che riesca a godersele.
Attraverso uno dei suoi connazionali ha trovato questo lavoro, in questo luogo sperduto. Prima non conosceva la campagna, aveva sempre vissuto in città.
Qui può lavorare senza aprire bocca. Qui non ha paura di essere aggredito. Preferisce stare tra gli animali e coltivare la terra. Ormai si è adattato a questo ambiente selvatico che lo protegge.
Quando mi parla, quando mi porta in macchina a scuola, dice sempre la stessa cosa: che nella sua vita non ha potuto fare niente. Vuole solo che io studi, che frequenti l’università e che poi vada via, lontano da loro.
9
Il giorno dopo, nella tarda mattinata, il padre comincia a caricare i bagagli in macchina. Vedo quattro persone abbronzate, ancora più affiatate. Non vogliono andare via. A colazione dicono che vorrebbero tornare l’anno prossimo. Quasi tutti gli ospiti dicono la stessa cosa quando partono. Alcuni, fedeli, tornano, ma alla maggior parte basta una visita.
Prima di partire la madre mi fa vedere la roba in frigo che non vuole riportare in città. Mi dice che si è affezionata molto a questa casa, che ne sente già nostalgia. Forse quando sarà presa dall’ansia, o dal lavoro, penserà a questo luogo: all’aria pulita, alle colline, alle nuvole sfolgoranti al tramonto.
Auguro buon viaggio alla famiglia e li saluto. Resto in attesa fino a quando la macchina sparisce. Poi mi metto a preparare la casa per una nuova famiglia che dovrebbe arrivare domani. Sistemo i letti disfatti, la stanza delle bambine incasinata. Spazzo via le mosche schiacciate.
Hanno dimenticato o lasciato apposta un po’ di cose che non servono più, che tengo io. Disegni fatti dalle bambine, conchiglie raccolte in spiaggia, le ultime gocce di un bagnoschiuma profumato. Liste della spesa nella grafia piccola e sbiadita della madre con cui ha scritto, su altre pagine, tutto di noi.
Grazie per aver letto, a presto.
Nat