Corpi, Ada Negri la poetessa degli umili,Quella fine che ci rende così umani di Massimo Recalcati, Piano city Napoli, Fiabe italiane: Il bastimento a tre piani di Italo Calvino
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Parola del giorno: corpi
Piano city Napoli, l'esibizione al Molo San Vincenzo
"Un momento di arte poetica dinanzi ad un paesaggio unico al mondo: era quello che volevamo offrire alla città aprendo il Molo San Vincenzo ai napoletani" con queste parole il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, ha commentato l’esibizione del pianista Luigi Esposito che, per la prima volta, ha visto il ritrovato molo napoletano ospitare un concerto. Evocativamente intitolata “Portami a vedere il mare”, la performance è stata uno degli appuntamenti più significativi di Piano City Napoli 2022, rassegna promossa e finanziata dal Comune di Napoli nell’ambito del progetto “Napoli città della musica” https://video.repubblica.it/edizione/napoli/piano-city-napoli-l-esibizione-al-molo-san-vincenzo/429455/430409?videorepmobile=1&videorepmobile=1
Ada Negri la poetessa degli umili
di Paolo Di Paolo Orfana di padre, cresciuta con la madre operaia e con la nonna — la vita le offre un incipit da romanzo cupo, quasi dickensiano ( e nasce nell’anno in cui Dickens muore). Ma è una storia di riscatto e di rivalsa: gli sforzi materni le consentono di studiare, di diventare maestra; di cominciare a scrivere, poco più che ventenne, sul giornale stampato a Lodi, sua città natale, Il Fanfulla. La fama postuma l’ha relegata in una ingenerosa biblioteca di tardo crepuscolarismo, ma Ada Negri — in un mondo di letterati diffidenti quando non apertamente misogini — si ricava uno spazio di credito e di grande popolarità. Pirandello la giudica sentimentale e retorica, e l’etichetta è pesante, ma il suo lavorio sugli stati d’animo, sulle tempeste del cuore, non è convenzionale come può apparire a una lettura distratta e pregiudiziale. I versi — nelle prime prove irrigiditi dalle forme chiuse e da un timbro tipico della poesia italiana di fucci e il primissimo d’Annunzio — cercano però un’autonomia di sguardo. Che spesso raggiunge luoghi inosservati dai maestri: i luoghi della privazione, della miseria. Negri cerca i volti e le vicende degli umili, dei dimenticati dalla storia. I sacrifici indica non a caso il titolo di una poesia della raccolta Tempeste ( 1895), che Edizioni Ensemble rimanda in libreria con la cura di Dario Pontuale e la prefazione di Alessia Bronico: ed è la messa a fuoco di una maestra di scuola, « rassegnata calma paziente » . « Morrà un giorno sola » , immagina Negri, che conosceva bene le aule fredde e l’amaro di una giovinezza votata a preparare l’avvenire dei « figli d’altri » . In poesia tanto quanto in prosa, la scrittrice raduna le protagoniste per una ideale galleria di « solitarie » ( altro titolo — Le solitarie — appena ristampato da Ensemble): e sono vedove, acrobate del circo, fidanzate che attendono e fremono e qualche volta sanno odiare. Nei racconti inclusi nella raccolta del 1917, Feliciana, Raimonda, Fresia sono figure perlopiù segnate, quando non straziate, dal peso di una vita non scelta. Ma dimostrano una ostinazione, una tenacia che coincide con la loro stessa dignità: « Vi è contenuta tanta parte di me — scrisse Negri a proposito del libro -, e posso dire che non una di quelle figure di donna che vi sono scolpite o sfumate mi è indifferente. Vissi con tutte, soffersi, amai, piansi con tutte » . Protofemminista? Capace di travasare la cronaca del proprio tempo in poesia, di portare in versi uno sciopero operaio, di restituire a una tessitrice il posto che le spetta in una società che l’ha schiacciata: tanto più che si è decisa, Feliciana, di fare a meno dei maschi. «Suo marito era morto in tempo. Per due bimbi piccoli, è ben più provvida una madre vedova, ma attiva e sana, che non lo siano cento padri beoni. E basta, di uomini, nella sua vita. Quell’uno, in sette anni di malinconica esperienza coniugale, gliene aveva lasciata la nausea. Avrebbe tirato il carro da sola, fino a quando le fossero bastate le forze; e allora i ragazzi, cresciuti ed a posto, avrebbero pensato a lei » . Altro che sentimentale! Chi ha paura di Ada Negri? Una socialista melanconica, «rozza figlia dell’umile stamberga » , che si apre, attraverso la letteratura, uno spazio di azione politica: attivissima sui giornali, costruisce una rete “militante” di alleanze istituzionali milanesi, con la Società umanitaria, l’Università popolare, l’Unione Femminile Nazionale. Con Ersilia Majno contribuisce alla fondazione dell’Asilo Mariuccia — il più delle volte citato a sproposito e in accezione negativa nelle frasi fatte dei maschi ( anche politici) ignoranti — per « addestrare all’emancipazione le fanciulle pericolanti » , offrire ricovero e sostegno alle ragazze madri e combattere la prostituzione. Il fascismo della prima ora la attrae,coniugando le istanze socialiste a un severo spirito patriottico; il Premio Mussolini ricevuto nel 1931 e l’ammissione nell’Accademia d’Italia un decennio dopo ( prima donna a farne parte) la rendono ascrivibile a una schiera di intellettuali non sgraditi al regime e tuttavia capaci di restare indipendenti. Il poeta Silvio Raffo, introducendo il volume mondadoriano che raccoglie la produzione poetica di Negri, parla di una autentica “ damnatio memoriae”: un caso clamoroso di oblio volontario da parte della critica letteraria — e forse però anche di incomprensione. E ce la mostra — arrivata alla fine della sua vita — « intenta a leggere con l’aiuto di una lente accanto alla stufa a carbonella » , incupita dal dolore e dallo sdegno per l’Italia in guerra. In una poesia della raccolta Il dono( 1936) si rivolge alla morte come « sorella della vita » : « Perché / fra il basso peso della carne e il soffio / in cui respira, Iddio, nel punto estremo / del separarsi, così stretto è il nodo / che lo strappo è martirio?». Non c’è risposta possibile, soltanto silenzio. « È la tua legge. E l’improvvisa / pace che imbianca come un’alba il volto / di chi trapassa, unica a noi può dire / quanto sia bello, quanto dolce, dopo / la scissione, il tuo riposo,o morte » . La Repubblica, Robinson 15 ottobre 2022.
Quella fine che ci rende così umani
di Massimo Recalcati
A differenza degli animali la morte è un’esperienza che segna tutta la nostra vita. Ecco perché è importante che sia degna
raccogliendo le voci di chi l’ha accompagnata. Diventare polvere può non significare cadere nell’oblio, scomparire, ma essere qualcosa che resta, che non può essere del tutto distrutto, che resiste alla violenza della morte.
Ricordi indelebili, parole indimenticabili, profumi inconfondibili, tempi di gioia e di dolore, di danza e di commozione, ma anche semplici gesti quotidiani che restano scolpiti nella nostra memoria. È questo l’insegnamento più profondo della polvere: non è forse la polvere il segno di qualcosa che resta anche nel tempo che passa? Non solo, dunque, la polvere come segno del tempo che passa, ma la polvere come segno di qualcosa che non viene del tutto distrutto dal carattere inesorabile del divenire, segno di un resto, appunto, indistruttibile.
Non è forse quello che accade con i nostri innumerevoli morti? Polvere che può restare con noi come se fosse luce. Non è questo forse il tempo fondamentale dell’eredità? Cosa tratteniamo in noi di coloro che ci hanno lasciati? Cosa portiamo dentro il nostro cuore di quella presenza che è ormai divenuta assente? Quanta luce siamo capaci di estrarre dalla polvere dei nostri innumerevoli morti?. La Repubblica https://www.repubblica.it/cultura/2022/10/12/news/recalcati_morte_degna-369736209/
Fiabe italiane: Il bastimento a tre piani (Riviera ligure di ponente), Italo Calvino
C'erano marito e moglie poveri, che stavano in campagna. Nacque loro un bambino ma non avevano nessuno nel vicinato che gli facesse da padrino. Andarono in città, ma non conoscevano nessuno, e senza padrino non lo potevano far battezzare. Videro un uomo avvolto in un mantello nero sulla porta della chiesa e gli dissero: — Buon uomo, ci fate da padrino a questo figlio? — L'uomo disse di sì e il battesimo fu fatto.
Usciti di chiesa, lo sconosciuto disse: — Ora devo fare il regalo al mio figlioccio. Ecco questa borsa; servirà per allevare il bambino e dargli un'istruzione. E qui c'è una lettera che gli darete quando saprà leggere —. Il padre e la madre rimasero stupiti, e prima che trovassero parole per ringraziare l'uomo e per chiedere chi era, egli se n'era digià andato.
La borsa era piena di monete d'oro e servirono a mandar a scuola il bambino. Quando ebbe imparato a leggere, i genitori gli diedero la lettera; ed egli lesse:
"Caro figlioccio, torno a riprendere possesso del mio trono dopo un lungo esilio e ho bisogno d'un erede. Appena letta questa lettera mettiti in viaggio e vieni a trovare il tuo caro padrino, il Re d'Inghilterra. Post scriptum: In viaggio, guardati bene dall'accompagnarti con un losco, uno zoppo ed un tignoso."
Il giovane disse: — Padre, madre, addio, devo andare a trovare il mio padrino, — e si mise in viaggio. Dopo aver camminato qualche giorno, incontrò un viandante che gli disse: — Bel giovane, dove andate?
— In Inghilterra.
— Anch'io: viaggeremo insieme.
Il giovane lo guardò negli occhi; aveva un occhio che guardava levante e uno ponente, ed egli pensò che era il losco da cui doveva guardarsi. Si fermò con un pretesto e cambiò strada.
Trovò un altro viandante seduto su una pietra. — Andate in Inghilterra? Faremo il viaggio insieme, — disse e alzatosi cominciò a zoppicare appoggiandosi al bastone. "Questo è lo zoppo", pensò il giovane, e cambiò strada ancora.
Incontrò un altro viaggiatore, che gli occhi li aveva sani, le gambe anche, e quanto a tigna, aveva la più folta e netta testa di capelli neri che si fosse mai vista. Così, siccome era anche lui in via per l'Inghilterra, viaggiarono insieme. A sera si fermarono in una locanda e vi presero alloggio. Ma il giovane, che non si fidava, consegnò la borsa col suo denaro e la lettera per il Re al locandiere perché gliela custodisse. Nella notte, mentre il giovane dormiva, il compagno s'alzò, andò dal locandiere e si fece dare la borsa, la lettera e il cavallo. Al mattino, il giovane si trovò solo, senza un soldo, senza la lettera e appiedato.
— È venuto stanotte il vostro servitore, — gli disse il locandiere, — a prendere tutta la vostra roba. Ed è partito...
Il giovane si mise in strada a piedi. A una svolta, vide il suo cavallo legato a un albero in un prato. Andò per prenderlo ma da dietro all'albero saltò fuori il compagno della sera prima armato di pistola. — Se hai cara la vita, — disse, — devi farmi da servitore e fingere che sia io il figlioccio del Re d'Inghilterra —. E in così dire si tolse la parrucca nera: il suo cranio era tutto ricoperto di tigna.
Partirono, il tignoso a cavallo e il giovane a piedi, e così arrivarono in Inghilterra. Il Re accolse a braccia aperte il tignoso credendolo il suo figlioccio, mentre il vero figlioccio fu assegnato alle scuderie, come mozzo di stalla. Ma il tignoso non vedeva l'ora di disfarsene e un giorno che il Re gli disse: — Se potessi liberare mia figlia, prigioniera d'un incantesimo in un'isola, te la darei per sposa; ma tutti quelli che sono partiti per liberarla sono morti, — lui gli propose: — Provate a mandarci il mio servitore, lui certo sarà capace di liberarla.
Il Re fece chiamare subito il giovane e gli chiese: — Tu sei capace di liberare mia figlia?
— Vostra figlia? — disse il giovane. — Ditemi dov'è, Maestà!
E il Re: — Guarda che se tornerai senza averla liberata ti farò tagliar la testa.
Il giovane andò al molo, e guardava le navi partire e non sapeva come raggiungere l'isola della Principessa. Gli s'avvicinò un vecchio marinaio con la barba fino ai ginocchi: — Sta' a sentire, — gli disse, — fatti fare una nave a tre piani.
Il giovane andò dal Re e si fece armare una nave a tre piani. Quando la nave fu in porto pronta a salpare, ricomparve il vecchio marinaio: — Adesso, — disse, — fa' caricare un piano di croste di formaggio, un altro piano di briciole di pane, e il terzo di carogne putrefatte.
Il giovane fece fare i tre carichi.
— Adesso, — disse il vecchio, — quando il Re ti dirà: "Scegli quanti marinai vuoi", tu di': "Me ne basta solo uno", e sceglierai me —. Così fece e tutta la cittadinanza era a veder salpare la nave con quello strano carico e con un equipaggio composto d'un solo uomo, e per di più vecchio cadente.
Navigarono tre mesi, e dopo tre mesi, nella notte, videro un faro ed entrarono in un porto. Non si vedeva nulla a riva: case basse basse, un muoversi come di nascosto, e finalmente una voce disse: — Che carico portate?
— Croste di formaggio, — rispose il vecchio marinaio.
— Buono, — dissero da terra, — è quel che fa per noi.
Era l'Isola dei Topi, e tutti topi erano i suoi abitanti. Dissero: — Compriamo tutto il carico, ma danari per pagare non ne abbiamo. Però ogni volta che avrete bisogno di noi, non avrete che da dire: "Topi, bei topi, aiutatemi voi!" e noi arriveremo subito ad aiutarvi.
Il giovane e il marinaio buttarono la passerella e i topi vennero a scaricare velocissimi le croste di formaggio.
Partiti di là, arrivarono di notte a un'altra isola. Nel porto non si vedeva nulla, peggio che in quell'altra. Non c'era né casa né albero che s'alzasse da terra. — Che carico avete? — sentirono dire, dal buio.
— Briciole di pane, — disse il marinaio.
— Buono! — risposero. — È quel che fa per noi!
Era l'Isola delle Formiche, e tutte formiche erano i suoi abitanti. Neanche loro avevano danaro per pagare, ma dissero: — Quando avrete bisogno di noi, basta che diciate: "Formiche, belle formiche, aiutatemi voi!" perché noi accorriamo dovunque voi siate.
E si misero a scaricare le briciole di pane, avanti e indietro per le funi di ormeggio. Poi la nave ripartì.
Arrivarono a un'isola tutta rocce altissime che calavano a picco sul porto. — Che carico portate? — gridarono di lassù.
— Carogne putrefatte!
— Buone! — dissero. — È quello che fa per noi, — e grandi ombre nere calarono sulla nave.
Era l'Isola degli Avvoltoi, abitata tutta da quegli uccelli rapaci. Scaricarono la nave portandosi via le carogne a volo, e in cambio dissero che al richiamo: "Avvoltoi, begli avvoltoi, aiutatemi voi!", sarebbero sempre accorsi in loro aiuto.
Dopo altri mesi di navigazione, arrivarono all'isola dov'era prigioniera la figlia del Re d'Inghilterra. Sbarcarono, attraversarono una lunga caverna, e sbucarono davanti a un palazzo, in un giardino. Venne loro incontro un nano. — È qui la figlia del Re d'Inghilterra? — domandò il giovane.
— Venite a domandarlo alla Fata Sibiana, — disse il nano, e li introdusse nel palazzo dal pavimento d'oro e dalle pareti di cristallo. La Fata Sibiana era seduta su un trono di cristallo e d'oro.
— Sono venuti re e principi con tutti i loro eserciti, — disse la Fata Sibiana, — per liberare la Principessa, e tutti sono morti.
— Io ho solo la mia volontà e il mio coraggio, — disse il giovane.
— Ebbene, — disse la Fata, — dovrai passare tre prove. Se non ci riuscirai non farai più ritorno. Vedi questa montagna che mi nasconde il sole? Domattina quando mi sveglio voglio avere il sole in camera. Devi riuscire ad abbattere la montagna entro questa notte.
Il nano portò un piccone e condusse il giovane ai piedi della montagna. Il giovane diede un colpo di piccone e il ferro si ruppe. "Come faccio a scavare?", si disse e gli vennero in mente i topi dell'isola. — Topi, bei topi, — chiamò, — aiutatemi voi!
Non aveva finito di dirlo che una marea di topi si mise a brulicare sulle pendici della montagna, e la ricoperse tutta fin sulla cima, e tutti scavavano e rodevano e zampettavano via la terra, e la montagna si sfaldava, si sfaldava...
L'indomani la Fata Sibiana si svegliò ai primi raggi del sole che entravano nella sua camera. — Bravo, — disse al giovane, — ma non basta —. E lo condusse nei sotterranei del palazzo. In mezzo al sotterraneo, in una sala alta come una chiesa c'era un immenso mucchio di piselli e lenticchie tutti mischiati. — Bisogna che entro stanotte mi dividi i piselli dalle lenticchie, facendo due mucchi separati. E guai se lasci una lenticchia nel mucchio dei piselli, o un pisello nel mucchio delle lenticchie.
Il nano lasciò un lucignolo di candela, e se ne andò con la Fata. Il giovane rimase di fronte al gran mucchio, col lucignolo che stava per spegnersi e mentre si domandava come avrebbe mai potuto un uomo compiere un lavoro così minuto, gli vennero in mente le formiche dell'isola. — Formiche, belle formiche, — chiamò, — aiutatemi voi!
Appena pronunciate queste parole, tutto l'enorme sotterraneo formicolò di quelle minuscole bestioline, che si disposero attorno al mucchio e, con ordine e pazienza, le une trasportando i piselli, le altre le lenticchie, ammucchiarono due cumuli divisi delle due specie.
— Non sono ancora vinta, — disse la Fata quando vide il lavoro compiuto. — Ora t'aspetta una prova ben più difficile. Entro domani all'alba devi portarmi un barile pieno dell'acqua di lunga vita.
La sorgente dell'acqua di lunga vita era in cima a un'altissima montagna, popolata di bestie feroci. Impossibile pensare di salirci, e più impossibile ancora andarci con un barile. Ma il giovane chiamò: — Avvoltoi, begli avvoltoi, aiutatemi voi! — E il cielo fu nero d'avvoltoi che scendevano a larghi giri. Il giovane attaccò al collo di ciascuno un'ampolla e gli avvoltoi volarono in lunghissimo stormo fino alla sorgente sull'alta montagna, riempirono ognuno la sua ampolla, e rivolarono fino dal giovane a rovesciare le ampolle nel barile che egli aveva preparato.
Quando il barile fu riempito, si sentì un galoppo di cavalli: la Fata Sibiana fuggiva, e dietro le correvano i suoi nani, e dal palazzo saltò fuori felice la figlia del Re d'Inghilterra dicendo: — Finalmente sono salva! M'avete liberata!
Con la figlia del Re e il barile dell'acqua di lunga vita, il giovane tornò sulla nave dove il vecchio marinaio l'aspettava per levar l'ancora.
Il Re d'Inghilterra scrutava ogni giorno il mare col cannocchiale, e quando vide avvicinarsi un bastimento con la bandiera inglese, corse al porto tutto contento. Il Tignoso, quando vide il giovane sano e salvo con la figlia del Re, per poco non morì di rabbia. E decise di farlo assassinare.
Mentre il Re festeggiava il ritorno della figlia con un grande pranzo, due tristi figuri vennero a chiamare il giovane, dicendo d'una questione urgente. Il giovane senza capire li seguì; giunto nel bosco, i due figuri, che erano sicari del Tignoso, trassero i coltelli e lo scannarono.
Intanto, al pranzo, la figlia del Re stava in pensiero perché il giovane era uscito con quei tristi figuri e non tornava. Andò a cercarlo e, arrivata nel bosco, trovò il suo cadavere pieno di ferite. Ma il vecchio marinaio aveva portato con sé il barile dell'acqua di lunga vita e vi immerse il cadavere del giovane: lo videro saltar fuori più sano di prima, e così bello, che la figlia del Re gli gettò le braccia al collo.
Il Tignoso era verde dalla bile. — Cosa c'è in quel barile? — domandò.
— Olio bollente, — gli rispose il marinaio.
Allora il Tignoso si fece preparare un barile d'olio bollente e disse alla Principessa: — Se non amate me mi uccido —. Si trafisse col pugnale e saltò nell'olio bollente. Restò bruciato, sull'istante, e nel salto gli volò via la parrucca nera e si scoperse la testa tignosa.
— Ah! Il Tignoso! — disse il Re d'Inghilterra. — Il più crudele dei miei nemici. Finalmente ha trovato la sua fine. E allora tu, valoroso giovane, sei il mio figlioccio! Tu sposerai mia figlia ed erediterai il mio regno! — E così avvenne.
Grazie per aver letto, a presto.
Nat